articoli di d. Angelo


 

LA LAMPADA, A CORTO FIATO, DI GIUSEPPE

Pensieri in disordine per il natale

Quando mi affaccio dalle finestre, che soffrono il cielo avaro di via Borgospesso, e lo bevo, forzando più che posso all'indietro questo mio anchilosato collo, sento pensieri e emozioni correre. Spesso in disordine. In un disordine, che penso sia quello della vita. Allora mi dico -forse a scusarmi, o sarà vero?- che troppo ordine uccide la vita, uccide i pensieri, uccide le emozioni.

Ecco i pensieri in disordine, in vigilia di Natale.

Mi capitò giorni fa di provare emozione al brusio della neve, sui fili della luce che si legano, casa a casa, lungo via Borgospesso, via meno conosciuta, più segreta di quella, altezzosa ed esibita, che le corre a fianco e di cui tutti vanno parlando, via Montenapoleone.

Ascoltavo nelle prime ore del mattino il brusio della neve. E ancora mi domando se non sia stato vaneggiamento o anticamera di una più che incipiente demenza senile. Ma poi un'amica, molto e molto più giovane di me, mi diede conferma del brusio della neve. Non era dunque un inganno. C'era solo da ascoltare.

Oggi che il Natale -o il Mercato?- si è fatto più vicino, quando mi affaccio alle mie finestre, al brusio della neve si é sostituto quello delle piccole luci, che fanno quasi un tappeto di scintille sulla via per chi guarda dall'alto. Per chi guarda dal basso è soffitto luminoso che nasconde il cielo.

Tappeto o soffitto per un Natale? Che cosa è meglio? Di botto darei la mia preferenza al tappeto, al tappeto visto dall'alto. Almeno non mi chiude la vista del cielo, avaro cielo. Non cantavamo fin dall'infanzia il mistero di uno che "scende dalle stelle"? E uno che viene dall'alto non si merita un tappeto? Un tappeto di luci? A protezione dei passi? Ma poi mi ritorna, a memoria di vangelo, l'evento della sua nascita. Senza tappeti e senza soffitti di luce.

Dov'è mai, nel racconto della sua nascita, la luce, se non per dire che quella madre "lo mise alla luce"? Ma è modo di dire, perché quella era notte. Lo mise alla notte. Se è vero che i pastori nell'ora della nascita vegliavano, ed era notte, facendo la guardia al loro gregge. Non si parla nei vangeli di una lampada di miracolo calata, in segno di misericordia, dall'alto, a far luce alla donna che vedeva sgusciare dal grembo il frutto dei nove mesi. Né di lampada calata dall'alto, in volto di misericordia, sulla mangiatoia in cui, avvolto di fasce, deporre uno scricciolo di figlio. Ma adagio, lentamente per non fargli male. Ed era notte, buio pesto. A veglia -questa sì, la possiamo immaginare- a veglia l'umile lampada accesa da Giuseppe. A fiato lento e oscillante, come le lampade d'allora. Le nostre splendono sicure e senza emozioni. Quella di Giuseppe era viva, pulsava fiato. Come quel bimbo, suo e non suo.

Ma non sarà, me lo chiedo, che questo impazzire di luci nasconda il sussulto del buio? Qualcuno di noi ancora ricorda il brivido che ci correva nelle vene quando da piccoli si faceva buio nella stanza e tutti ad occhi sgranati a fissare il presepe che pulsava nell'ombra.

E' il buio, non le luci sfacciate, è il buio che ancora può tremare d'emozione per la lampada fioca e a corto fiato di Giuseppe. Oggi qui in Borgospesso mi verrebbe da augurarmi che tutto a un tratto si spegnesse, tutte le luminarie della mia città, quelle della via che mi sta accanto e mi toccasse per grazia la lampada di Giuseppe.

Sono ad augurarmi che si faccia buio. Se così non fosse, forse che qualcuno si accorgerebbe di un'umile lampada che veglia il natale dentro l'ostentato impazzire di luci? Solo il buio può gridare il miracolo della tenerezza del lume. Che per grazia si è acceso nella notte. Non il soffitto di luci della mia strada.

Ma, se mi è permesso ritornare all'alternativa, nemmeno il tappeto di luci. Perché miracolo dei miracoli e grazia delle grazie non è un Dio che scende su un tappeto di luci, ma un Dio che scende nella notte, nella ruvida paglia di una mangiatoia. E se rubi la notte, la notte della storia, se rubi la ruvida paglia a questa nascita, le strappi la grazia delle grazie, che è questo sposalizio di luce e di tenebra, questa immersione di un frugolo di lievito sincero nella pasta oscura che resiste a fermentare, questa speranza che la luce possa alleviare il peso delle nostre notti. Che non vanno ignorate. O cancellate da luminarie che tentano di far dimenticare la fatica della luce. La fatica della luce, direbbe una cara amica., Gabriella Caramore. Così ha intitolato il suo libro.

A volte mi verrebbe la voglia -e mi prenderebbero per un pazzo- di andare per le strade e gridare: "Togliete le luminarie, danno immagine falsa del mondo. Mascherano il buio che ci portiamo dentro, il buio che segna i nostri giorni. Mi sembrano cancellare il grido del buio alla luce vera. Mi sembrano irridere la lampada fioca, fiato a rilento, di Giuseppe, lampada che fa segno a un altro. Un altro che venga a illuminare per grazia angoli oscuri della vita e del mondo.

E metti in attesa il buio. In attesa il buio della terra, perché riceva luce. Dalla nascita. E' dal buio che sale il grido alla luce. E se puoi, per quello che puoi, porta la tua lampada. Non importa se fioca e corta di respiro, purché vi arda un poco dell'olio del vangelo. Portala a illuminare le notti, che ingenuamente presumiamo di mascherare con lo scintillio sfacciato delle luminarie.

Così mi corrono, e non li so dominare, in questi giorni i pensieri e forse anche per questo, lo confesso, non mi riesce di sentirmi a natale in strade trasformate in tappeti e soffitti di luce.

Natale non è un Dio in fuga dal buio, non è un Dio in distanza schizzinosa dalla terra. E' incarnazione, è un Dio in contatto, della realtà più dura. A rischio di contagio e di pianto. Anche di morte.

Mi sono chiesto invece che cosa fosse natale, in una di queste gelide mattine di fine novembre. Uscivo, era presto, forse troppo presto per non essere fatto spettatore di ciò che poi in pieno sole più non si vede. Nessuno ancora per le strade. Deserte al limite della irrealtà. Andavo in cerca di giornale ad una edicola più lontana del solito, quando, costeggiando i portici, ecco apparire prima uno poi un altro sacco a pelo, a nascondimento di corpi. E il rigonfio li diceva indubitabilmente abitati. In faccia a una vetrina che esibiva. Esibiva senza pudori. Mi sono chiesto che cosa fosse natale? E se bastasse a far luce il pranzo dei poveri, pranzo di poche ore quasi irreali, che poi ti ripiombano nel buio di ogni ora.

Mi sono chiesto che cosa fosse natale, in una di queste sere, quando una rete televisiva ebbe l'ardire di accendere una lampada -tu dirai fioca e dal fiato corto a confronto del regno pressoché incontrastato di spettacoli di intrattenimento, dello loro luci effimere, delle parole false o pallide- proiettando un film-documento, da urlo, urlo d'emozione, sul rogo della fabbrica Thyssenkrupp di Torino. Scorrevano immagini e immagini, immagini da urlo. E non era incendio solo di operai mutati in torce di fuoco. Era incendio e struggimento di volti di parenti, di operai rimasti. Erano strappi di case. Di case e di futuro. E io a chiedermi che cosa fosse natale e dove una lampada per vincere la nostra indifferenza e illuminare la notte. Ma non per un giorno, non per la buona azione di natale. Una lampada per ricordare, a memoria di tutti, che la priorità, il primato, sempre e ovunque, anche in una fabbrica in dismissione, spetta all'uomo. Come racconta questa nascita.

Questa nascita -e qui sta, a memoria dei secoli, la sua luce- non dice la vicinanza di un Dio per un giorno e la sua dimenticanza o indifferenza per gli altri trecentosessantaquattro giorni. Dice immersione, dice contatto, dice abbraccio a prova di ferita e di morte, e non distanza, non dimissione, non fuga. E al cuore, in ritorno, le parole non dimenticate di Charles Péguy, ancora attuali purtroppo dopo decenni, e non solo per la chiesa, ma anche per la società, parole che mettono in guardia da messaggi che, cavalcando false ascesi e false paure, vanno nella direzione opposta al mistero che ci illumina, perché vanno a insegnare distacco, repulsione, distanza, steccati. Parole di accusa, quelle di Péguy, per "metodi formativi che organizzano la santità come un itinerario di fuga o come un recinto di filo spinato perché nessun contatto si stabilisca con una realtà quotidiana, che può essere maleodorante di sudore o di sterco, ma che il Verbo vuol pur stringere nelle sue mani come creta per nuove creazioni, più perfette delle prime".

Pensieri di natale, i miei, pensieri in disordine, su luminarie, su tappeti e soffitti di luce. E, insieme, una preghiera sottile: che ci sia data e non ci succeda di smarrirla, la lampada fioca di Giuseppe, la sola che nella notte, notte della storia, fa sgusciare dal buio, accarezzando, biancore di fasce e paglia di mangiatoia, viso di neonato e occhi estasiati di madre e ora anche facce ruvide e commosse di pastori sospettati e odore di greggi. Lampada che, sfrigolando, racconta il mistero della vicinanza. E invita a fare altrettanto, invita a prendersi a cuore. A prenderci, piccola o grande che sia, la nostra responsabilità.

don Angelo


 
 
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