Piango
sulla mia piazza… ed è Natale
È capitato qualche settimana fa, ma io ho ancora il cuore
gonfio. Come rotto. Mi hanno rotto il cuore. Me l’hanno
segato. E io ne porto ancora la ferita. Me l’hanno segato
che ancora era notte.
Mi ero alzato, ed era buio, stavo scrivendo, quando mi ferì
lo stridore di una sega elettrica. Era violenta. Come se
volesse fare presto. Che fosse ancora buio, prima che il
cielo vedesse. Urlava, come assetata di annientamento. Urlava
e tu lo sai come si dilatano voci e suoni nella notte. Ebbi
un presentimento. Corsi alla finestra, quello che temevo,
quello che da tempo avevamo in tanti temuto, stava avvenendo.
Nella notte, come è costume tra ladri, segavano impietosamente
gli alberi della nostra piccola piazza, quella su cui guarda
con occhi di tenerezza la nostra chiesa. Mi parve che piangesse.
Quando poi il cielo si imbrividì di luce e apparve lo scempio,
guardai in basso e poi in alto e, ti assicuro, mi sembrò
triste, quel mattino, anche il cielo, quasi si chinasse
ad accarezzare i tronchi segati. E noi a contare dai loro
anelli gli anni della loro vita, recisa per atto violento,
disumano.
Ti dirò che lo stridore di quella sega me lo sono sentito
dentro, e non solo io, per giorni e per giorni, come appiccicato
alla pelle, impigliato ai vestiti. Come se l’opera di oscena
devastazione ora fosse dentro e non più fuori.
Ora
passo sulla piazza. A volte chiudo gli occhi. È l’immagine
della distruzione. Come fosse passata una guerra. E penso:
è Natale. Natale di una piazza devastata. Patisco il paradosso.
Celebriamo la nascita e diamo la morte. Lui viene per ridarci
umanità, noi celebriamo la disumanità. Viene per restituirci
dignità e noi ci spogliamo e spogliamo di dignità.
La
mia piazza è diventata un simbolo. E così, ti dirò, anche
la mia chiesa. Mesi fa sorrideva agli alberi, che, pur carichi
di anni, reggevano, qualcuno un po’ a fatica. Reggevano
il compito che Dio aveva loro assegnato. Passavi e loro
a proteggere con misericordia chi, carico di anni, trovava
una sosta alla fatica di vivere su una delle panchine. Passavi
nelle ore asfissianti dell’estate e loro a regalarti sempre
un leggero fruscio di vento. Passavi e c’era poesia nel
verde delle foglie, ma anche nelle trame nere dei rami,
spogli d’inverno e puntati al cielo come in attesa. La mia
chiesa sorrideva, ogni volta che apriva gli occhi al mattino.
E,
penso, è Natale. Ma, fuori, ogni volta che esco, è il simbolo
dell’antinatale. L’antitesi della nascita. Che urla una
logica malsana, che intristisce la terra. Una logica frutto
di uno sguardo perverso, sguardo di rapina. Quasi a segnalare
dolorosamente con che occhi siamo giunti a guardare noi
stessi, gli altri, la terra.
Scrive Eugen Drewermann: “Come potete voi vedere Dio con
i vostri occhi? Tutto ciò che guardate è deformato dall’ottica
dell’avidità e della bramosia. Non vi è cosa sulla terra
che sappiate vedere rallegrandovene, dovete spalancare gli
occhi come belve per appropriarvene. Non sapete contemplare
un albero per lasciarlo al suo posto, dovete chiedervi quanto
renderebbe se fosse abbattuto. Non potete vedere un fiume
solo per gioirne, dovete chiedervi quanto si potrebbe guadagnare
possedendolo, quanta energia darebbe arginandolo con una
diga, che cosa potrete farne quando sarà di vostra proprietà.
Così per le montagne, le steppe e i mari. Non potete vedere
nemmeno le stelle senza imparare da esse con quali esplosioni
nucleari ci si può distruggere. Non sapete guardare il cosmo
senza pensare come trasformare la vastità dello spazio in
un’area in cui schierare apparecchiature belliche, marchingegni
di annientamento, potenziali distruttivi. Qualunque cosa
vediate è marchiata dall’avidità, dalla distruzione, dalla
presa di possesso. E perfino quando vi guardate tra voi
uomini domina l’avidità: chi appartiene a chi? chi prende
possesso di chi? chi si appropria di chi? chi violenta chi?
Come volete vedere Dio con occhi simili? Come volete vedere
gli uomini con questo genere di percezione?”
Prendere
possesso, appropriarsi, violentare sono i verbi che fanno
lo scempio dell’umanità e della terra. E così ai miei occhi
la mia piazza diventa un simbolo: era di tutti, quelle piante
erano di tutti, quell’erba di tutti, su quella panchina
andava a sedere chiunque, senza chiedere permesso a nessuno.
Un segno di vita per chi beve cemento ad ogni ora del giorno,
un’area in cui pulsava ancora il colore delle stagioni.
Sulla piazza scorreva il ritmo delle stagioni. Cambia qualcosa
sull’asfalto? Ha delle stagioni? Ti perdi ad ammirarne i
colori?
Ma
eri - qui forse è il problema - troppo piccola, piazza che
ospiti la mia chiesa. E, con te, piccoli, senza raccomandazioni
e protezione, i vecchi che ne godevano o i bimbi che l’attraversavano
o gli uomini e le donne ancora in cerca di bellezza. Ma
che cosa è mai un anziano o un bambino o un poeta, i loro
sogni e le loro attese a confronto con le macchine, il loro
impero, la pretesa dei box e dei parcheggi? E che ce ne
facciamo, in una società come la nostra, delle anime gentili
o dei poeti? Ditemi voi se rendono qualcosa. Terra di piccoli.
L’attenzione è altrove: il cortile di Palazzo Marino trasformato
in salotto dei grandi, in banchetto di cibi raffinati, quello,
suvvia, rende. Ma la terra dei piccoli?
Tu, piazza, mi sei diventata un simbolo. Alzo gli occhi
e poi subito li nascondo. Passo e mi dico: è Natale. Tu
mi rimandi un bisogno accorato di Natale. Mi rimandi lacerante
un disgusto per il mito seduttore della potenza, l’indignazione
per il mito dell’uomo forte: ne vedo con occhi increduli
gli esiti allucinanti. Mi raccontano di ragazzi che sgozzano
per provare emozioni “forti”, mi raccontano di ragazzi che
si pensano forti perché filmano chi sta morendo investito
da un autobus, mi raccontano di filmati di torture, mi raccontano
di personaggi “in vista” che possono permettersi parole
che un giorno definivamo da “caserma”, tanto loro sono forti,
mi raccontano di uomini in fiamme in acciaierie, tanto non
sono forti.
Ti dirò, piccola piazza, che, contemplando con occhi tristi
i tuoi tronchi segati, il Natale, che celebra il “piccolo”
e il “debole”, può sembrare una festa dei folli o dei poeti.
Tanto è in controtendenza. Folli e poeti, accompagnati dal
risolino dei forti. Il risolino per coloro che vanno a celebrare
un Dio che sceglie e difende piccolezza e debolezza. A volte
sembra che nulla sia cambiato. Anche allora quei sognatori
venuti dall’oriente li guardarono con occhi di compassione:
ingenui a cercare un Dio nella carne e nella terra dei piccoli.
Rimangono forse solo folli e i poeti ad alzare inascoltati
un grido per uno scempio che è degrado in umanità, a inginocchiarsi
al mistero della piccolezza.
E
allora ti dirò che io, triste per scempio e per degrado,
scempio e degrado di piazza e di umanità, fui in questi
giorni consolato e affascinato da un biglietto di auguri,
venuto da un monastero, quello delle monache benedettine
dell’Abbazia di Viboldone. Vi ho ritrovato, ed ebbi un sussulto,
il messaggio del vero Natale, quello della piccolezza. “Piccolo
si fece per noi” stava scritto. E il biglietto continuava:
La
benedizione del Signore
splenda in ogni dimora umana,
e attorno a ogni piccolezza
s’irradi in gioia
che sconfigge le tenebre
e restituisce la libertà
di legami affidabili e fecondi di vita.
Piccolo
si fece per noi. E la benedizione di questo piccolo splende
attorno ad ogni piccolezza. C’è da commuoversi, se ancora
ci rimane cuore, per un Dio che si fa piccolo: non ci ha
schiacciati con la sua fortezza. Ci avrebbe solo invasi
di terrore. Ha chinato i cieli nel segno di un’immensa tenerezza.
E noi abbiamo contemplato i suoi occhi, il suo sguardo sulla
piccolezza. Ma poi li abbiamo dimenticati. Abbiamo inseguito
il mito del-l’onnipotenza. L’onnipotenza fa la distruzione
dell’umanità e della terra. L’onnipotenza che spesso sorprendo
in un gesto quasi quotidiano, che per me è diventato simbolo,
lo spintonarsi.
Spintonarsi
o dare il passo? Che cosa insegna il Natale e che cosa insegniamo
ai nostri figli? E se il segno dell’immensa tenerezza di
Dio, anziché declinarlo in vuote liturgie, riprendessimo
a declinarlo nelle liturgie quotidiane della vita, come
fece lui. Curando lo sguardo. Roba da folli e da poeti o,
al massimo, dai monaci e di monache, direbbero i superdotati:
sei finito in uno sguardo? Sì. Mi sono innamorato dello
sguardo di Gesù: in quella piega dei suoi occhi c’era Dio:
E non so se c’è nella piega dei miei occhi. Ricominciamo
dallo sguardo. Uomini senza sguardo hanno devastato la mia
piccola piazza.
Ricominciamo
dallo sguardo: mi dissero, in una sera di queste. due miei
cari amici, che non osano dirsi credenti, ma forse lo sono
più di me. Dallo sguardo e dalla gentilezza, che è il contrario
dello spintonarsi. Che è dare il passo. Al più debole, al
più piccolo, al più povero, a chiunque, per il solo fatto
che è un uomo, una donna. C’è vuoto. E c’è sete. Di sguardi
e di gentilezza.
Qualcuno
storcerà il naso. Ma come hai ridotto in piccolo il mistero
del Natale! L’hai accorciato in uno sguardo. Sei arrivato
a una parola ben piccola, la gentilezza!
Ti
dirò, la compagnia degli uomini e delle donne del mio tempo
mi hanno reso sempre più diffidente delle parole declamate,
magniloquenti, hanno il tono e la pretesa dell’onnipotenza,
il più delle volte sono devastanti. Mi sto innamorando,
come i folli e i poeti, di parole piccole e di sguardi che
abbiano il colore degli occhi di Gesù, il piccolo. A scanso
di equivoci, “piccolo” anche quando ebbe più di trent’anni.
E forse lo dimentichiamo.
Guardo
la mia piazza e so dove arriva l’onnipotenza. Ma so anche,
me l’ha ricordato un monastero, che “lui si fece piccolo”.
È notizia buona: la benedizione viene dalla piccolezza.
don
Angelo
|