OSARE LA SPERANZA IN TEMPI
DIFFICILI
LA
MEMORIA DI DAVID MARIA TUROLDO?
Cascina Maria di Paderno d'Adda, 18 maggio 2012
Vi dirò che, mentre radunavo questi pensieri che
chiamo suggestioni, da una parete del mio studio, una
grande foto, tra le più belle lasciatemi dire,
di David, mi guardava con il suo sorriso pieno di furbizia,
di dolce ironia e anche di compassione per la mia misura,
per il peso leggero della mia voce, a fronte della sua
di tuono.
E
vorrei iniziare, se mi permettete, con un ricordo personale.
Da dove viene questo mio affascinamento per David? Forse
affascinamento non è la parola giusta, ma perdonatemi
che lo chiami così: affascinamento. Risale agli
anni del mio liceo in Seminario, dove la parola libertà,
una delle parole più care a David, era sconosciuta,
non nominata, non so se per paura. Ero un liceale e nei
Seminari leggere Montale, Ungaretti, Turoldo era guardato
direi con sospetto, e non solo come stranezza. E io affascinato
dai suoi versi, asciutti, ma abitati dallo stupore: "Io
non ho mani/ che mi accarezzino il volto
".
Cominciavo
così a seguirlo, come da lontano, quasi furtivamente.
Erano i tempi di una frequentazione e di un'amicizia inespresse.
Poi mi fu dato conoscerlo da vicino: conoscere i suoi
occhi, la sua voce, le sue mani. Erano gli anni in cui
le strade si infiammavano di immaginazione e, a volte,
purtroppo anche di violenza; gli anni del vento per la
chiesa: e non era solo vento di tempesta, come usavano
dire i profeti di sventura, ma anche e soprattutto vento
di Pentecoste, vento del Concilio. Ricordo, era venuto
a Busto Arsizio a commentare una parabola. Lui sempre
ci ha commentato parabole, quelle di Dio e quelle dell'uomo.
Quella sera il commento fu sulla parabola del samaritano.
"Un uomo" leggeva "scendeva da Gerusalemme
a Gerico
", e la sua voce di tuono a sottolineare:
"un uomo, capite, senza aggettivi, senza qualifiche
o appartenenze. Un uomo! Ti basta che uno sia un uomo,
perché tu ti senta chiamato a fermarti".
Non
ci siamo più persi di vista. Parroco a Lecco, frequentavamo
nei primi anni la sua lectio all'abbazia di S. Egidio.
E lui a frequentare la nostra parrocchia e poi la nostra
casa parrocchiale che lo ospitò per tre mesi. Dunque
anche noi nel mazzo dei suoi amici, a condividere.
Ogni
fremito vero, voi lo sapete, va custodito, va condiviso,
soprattutto se fremito di profeti, soprattutto in stagioni
fatte aride per assenza di vento. E noi ad annusare vento,
vento dello Spirito. Secondo il vangelo lo Spirito è
vento e coloro che ne sono abitati lo portano negli occhi.
Vento ogni fremito di profezia. Ricordo i tempi in cui
amici mi chiedevano: "Hai visto il profeta?"
E la domanda riguardava lui. "Hai visto Padre David?".
Mi colpiva il verbo, il verbo della domanda dei miei amici:
"Hai visto?". Perché la profezia e la
fede, la disperazione e la speranza se ti abitano non
abitano solo lo spirito, abitano anche il corpo, corpo
e spirito insieme. Noi, lasciatemi dire, vedevamo. Ma
vedevamo anche la differenza, un abisso, tra il suo viso,
i suoi occhi, il fuoco che l'accendeva e i visi immobili,
smunti, gelidi, truccati, di plastica di tante cosiddetti
personaggi del nostro tempo. Ciò che aveva dentro
gli parlava dagli occhi, dal viso, dalle mani. Ricordo
le sue mani.
E
vengo a toccare il tema di questa sera che vede questo
congiungimento di speranza e tempi difficili, oserei dire
di disperazione e speranza.
Quelli
fra noi che hanno conosciuto Padre David, quelli fra noi
che hanno avuto il dono, la grazia, della stagione dei
profeti, noi dunque, disperazione e speranza non le abbiamo
ascoltate solo nelle sue parole, disperazione e speranza
le abbiamo visitate nel suo viso, nei suoi occhi, nella
sue mani, le sue grandi mani.
Sì, io vorrei accennare, come posso, con la mia
povera misura, povera voce, questo paradosso, questo strano
congiungimento di peso e di speranza in David, un congiungimento
cui spesso per esibizione sfrontata di fede si sfugge,
come se fosse così ovvio che, se hai fede, sei
nella speranza, assente ogni ombra di disperazione. O
sei in disperazione o sei in speranza. Se avessi su di
voi un qualche influsso, ma non di condizionamento di
pensieri, vi inviterei a dubitare e a rifuggire da quelli
che per fede passano attraverso le tragedie umane, con
occhi asciutti, cantando il gregoriano.
Non
mi va di credere a tali monumenti dello spirito, mi va
di commuovermi e di aprire i miei occhi e il mio cuore
per coloro che la speranza la sanno difendere come si
difende un fuoco da un uragano, come si difende un volto
da sferze di pioggia e di vento.
Il
ricordo della tempesta di pioggia e di vento sembra evocare
in modo immediato il David della sua malattia mortale,
le sue notti con Qoelet, quando lo assalì il drago
e non ebbe il coraggio di chiedere un miracolo: "E
perché Dio lo dovrebbe a me e non a un altro?"
diceva.
Con
tutti gli aggrediti della terra gridò a Dio le
sue domande. Erano domande che sfioravano la disperazione.
Ma il grido, il grido al suo Dio, grido prossimo, quasi
gemello della disperazione, oserei dire, attraversò
tutta la sua vita, a motivo della sua immediata incandescente
immersione nelle tragedie della terra: dai giorni della
resistenza agli ultimi giorni. Grido per la ferita, per
lo strazio dell'umanità, per lo sfregio di ogni
giustizia. La ferita dei sogni strappati.
Come
reagirebbe, quante volte me lo chiedo, in questa società
che ha portato a livelli impressionanti quello che già
allora lui denunciava? Un società sedotta da venditori
e ciarlatani, dove è in atto un tentativo sempre
più pervasivo di addormentare le coscienze e il
pensiero, dove l'Impero sembra non aver più oppositori
se non un piccolo Davide e la sua ingenua fionda, dove
tutto sta diventando mercato, la sanità, la cultura,
la democrazia, il futuro della gente?
Già
allora ne vedeva i segni. Così per esempio rispondeva,
con un analisi puntuale e amara di quegli anni, dalle
colonne della "Domenica del Corriere" a una
ragazza che gli aveva scritto di sentirsi disorientata
e di non credere più a nulla:
"La tua è una generazione che sconta tutti
i nostri errori ed orrori: il problema originario non
siete voi, giovani, ma siamo noi, noi che non rappresentiamo
agli occhi vostri nessun ideale.
Che
valori vi abbiamo trasmesso che non fossero quelli di
una efficienza economica, di un "benessere"
puramente materiale, di possibilità di carriera,
di una politica di violenza, di uno Stato di corruzione,
di una religione compromessa coi poteri dominanti, di
una famiglia fondata unicamente sugli istinti e sugli
interessi? Cosa c'è di umano ancora nel nostro
sistema? Mi si perdoni: è un prosa persin facile,
tanto che non dice niente".
Quali
parole oggi troverebbe se non forse quelle che fanno lamento,
per esempio, nella poesia "Perché non mi uccido"?
E già il titolo potrebbe turbare i devoti: può
un uomo di fede arrivare alla soglia della tentazione
di deporre la vita?
Leggo
qualche verso:
Vi
parlo a cuore aperto, amici
ora che senza fine
la notte si prolunga
e rimandare le speranze
è un gioco che più non persuade.
ora che nulla illude
e la memoria è seminata di rovine
delle cose amate, come di resti
di una sagra lontana;
e non vi'è più gioia,
ma solo continuiamo per disperata
fatica di vivere;
ora che gli stessi amici
si sono fatti radi
e gli altri - o quanti! -
quasi non fossero mai esistiti,
cancellati dal sistema
e perduti nel deserto
di queste città;
ora di conversare con voi, i pochissimi
risparmiati per grazia
alle nuove bufere,
è il solo barlume acceso
ancora nella notte.
Non altro dono ambisco:
amicizia fonte del canto
e poesia come ultima fede
non più di fanciullo
ma di uomo amaro,
di uno che nella vita
ha spinto i confini
estremi delle cose,
in sincerità che fa sangue,
ora confesso, lo devo,
che abbiamo tutto perduto.
Io
ho visto una ad una
cadere le proposte
per cui avevamo giocato
mille volte la vita;
ho visto morire imprese
al cui sorgere avevamo dato
fede e ragione e pudore:
nuova città sognata ed altra
chiesa umana e credibile
e bella come la sposa
dell'Apocalisse
ho visto i poveri andarsene
e i giovani non credere più.
e spegnersi i nostri fuochi
per cui splendevamo fra le macerie.
Ma
la speranza riemergeva. Da dove riemergeva nei momenti
più desolati e più desolanti? Da dove? Da
dove potremmo oggi attingerla in tempi in cui anche noi
vediamo cadere proposte per cui avevamo giocato la vita?
Vorrei
accennare a quelli che, a mio avviso, furono per David
spazi di germinazione, tra durezze di pietra.
Uno
spazio fu quello delle Scritture Sacre, del Vangelo, dove
David aveva ascoltato con cuore commosso l'alto grido
di Gesù, il venerdì santo, quando non risponde
eco dal cielo e lontano è l'intenerirsi dell'alba
della risurrezione. Proprio là dove tutto sembrava
perduto.
Disperazione e abbandono, congiungimento su cui era stato
istruito dai salmi.
Il
suo grido ricalcava, a volte alla lettera, il grido di
disperazione degli oranti dei salmi. Voi tutti sapete
quanta fosse la sua passione per i salmi, che tradusse,
che volle musicati perche divenissero canto di tutti nelle
eucaristie a Fontanella. La sua frequentazione dei salmi
non l'aveva depauperato della fierezza, del coraggio.
Non era un Dio pallido quello che lui aveva incontrato
nelle Scritture sacre: era il Dio dei profeti, dei salmi,
un Dio sanguigno. Che accetta anche il linguaggio della
disperazione, della storia, della vita, ma non uccide
i sogni: depone i potenti dai troni e innalza gli umili.
Un Dio che non ci vuole arresi, ma resistenti. Preghiere
a tal punto sanguigne, quelle dei salmi, che, se non si
sapesse di dove vengono, gli uomini devoti griderebbero
alla dissacrazione, alla violenza che rasenta la bestemmia.
Ma nei salmi la speranza germoglia nell'abisso della disperazione.
Grido e abbandono insieme.
Le
nostre preghiere hanno perso molto della forza e dell'impetuosità
dei Salmi. Non così la preghiera di David, che
ha toccato uno ad uno i salmi, senza cancellarne le domande
impietose, i lamenti disperanti, la ribellione, che poi
si placa con l'abbandono.
Perché
Dio non ci vuole mezze figure, non ci vuole senza spina
dorsale. I suoi figli li vuole capaci di stare liberi
davanti a lui. Con il nostro grido, purtroppo assente
nelle preghiere ecclesiastiche, così pallide.
David ha assunto fino in fondo la domanda. Fede vera,
diceva, non è a Pasqua, ma il Venerdì Santo:
quando
non una eco
risponde
al tuo alto grido.
Un
altro spazio di germinazione di speranza in Davide, lasciatemi
dire, fu la storia vista dal basso, la storia che non
appare nelle ricostruzioni privilegiate dai nostri testi
che danno invece ampio spazio alla parte dei cosiddetti
grandi del mondo. Padre David ha scelto, come compagni
di viaggi e di speranze, i piccoli. Vedeva in loro crescere
il regno di Dio, lo vedeva crescere anche nel loro martirio.
"Salmodia
della speranza": recita il titolo di un suo testo
teatrale sulla Resistenza. Anche questo un paradosso della
sua vita. Lui uomo dei paradossi. Paradosso, che lui,
immerso come pochi nei drammi della terra, nello strazio
degli ultimi, ritrovasse fede e coraggio per cantare la
speranza, là dove il tentativo era di soffocarla.
Una parola molto antica gli sussurrava al cuore che i
martiri di ieri e di oggi, se non se ne perde la memoria,
sono seme nella terra. Una terra che non va per disperazione
abbandonata.
In
difesa degli ultimi. Gli ultimi, una categoria dell'umanità,
che ebbe, dobbiamo riconoscerlo, una posto di privilegio,
terra sacra, nella vita di David. Gli ultimi di ogni terra
e di ogni condizione sociale, gli ultimi che Gesù
difese a costo di morte restituendo loro quella dignità
di cui spesso vengono illegalmente espropriati. Gli ultimi,
i dimenticati, volti cancellati, inghiottiti nelle nebbie
della nostra dilagante indifferenza, nelle nostre agghiaccianti
leggi dell'esclusione, esclusioni illegali in umanità.
Lui,
per passione fremente, per fedeltà senza sconti,
gli ultimi li volle portare da dietro le quinte, dove
l'ingiustizia li aveva confinati, sul proscenio del palco
o, forse meglio, sul lucerniere a splendere nella casa
di questa umanità. E furono nomi di terre, ultime.
E furono nomi di donne e di uomini, ultimi. Furono, fino
a pagarne il prezzo, le sue battaglie. Battaglie di passione,
per debito di fede e per debito d'amore.
E
così, avventura stupefacente, la Salmodia di David,
per mirabile congiungimento, legava il nome di Dio e il
nome degli ultimi della terra. Quelli di cui i nostri
reliquiari sacri gridano l'assenza, assordante silenzio!
Quelli lui mise sugli altari, nomi sacri, nel canto forte
e tenero della sua Salmodia. Perchè ognuno, fissandoli,
avesse un sussulto di libertà e riprendesse a sperare.
Infine
spazio di germinazione di speranza per Davide furono i
suoi amici. Lui che si sporcava di polvere e vento, uomo
non delle sagrestie ma delle strade e delle piazze, strade
e piazze che sono la casa di tutti, strade e piazze che
si accendevano dove passava, s'accendevano al sogno della
giustizia e del coraggio, e non come oggi che si accendono
di vuoto alle bandiere sporche della difesa dei propri
egoismi e delle proprie sicurezze invece che ai sogni
di tutti, lui che non temeva di sporcarsi di polvere e
di vento per le strade, amava ritrovarsi nelle case degli
amici, quasi cenacoli di resistenti. In casa di amici
a condividere, a raccontarsi. E il racconto durava fino
alle ore piccole della notte, insieme a ricercare strade
di giustizia e di verità, di solidarietà
e di opposizione alla prepotenza e all'arroganza. L'amicizia,
scriveva, dopo la Bibbia e dopo le lettere dei condannati
a morte della resistenza, è oasi e albero verde:
Nostra
amicizia, oasi
ancora intatta nella memoria
l'albero più verde fra tutti
alto sulle nuove macerie:
Dopo, amici, le amate lettere
le dolcissime lettere
bibbia ugualmente vera
dopo le strazianti lettere
dei condannati a morte
d'Italia e d'Europa,
e le cronache lugubri dei lager
Per
non cedere alla disperazione, penso, oggi dobbiamo riaprire
questi spazi che allora ci facevano alzare lo sguardo
e moltiplicare cenacoli di resistenti, da dove ripartire,
magari dopo aver assaporato una minestra buona, la sua
dorata polenta, innaffiata da un bicchiere di vino allegro.
E ripartire, ripartire. Con la speranza del contadino
che attende dalle zolle, anche quando è inverno
e tutto sembra chiuso.
Sperare
contro ogni speranza significa accettare il tempo dell'inverno,
e proteggere la terra, non fare come se fosse vuota. Se
permettete, vorrei confidarvi un'immagine. Alcuni anni
fa celebrai il funerale di un mio amico, Eugenio, cinquant'anni,
lasciava una moglie carissima, Cristina e la piccola Lia
di otto anni. Sono persone bellissime. Come siete belle
persone voi che avete trovato spazio per questi miei pensieri.
Alla fine del funerale, tra le tante testimonianze, mi
colpì quanto disse un suo amico. Disse: "Eugenio
quand'era più giovane aveva la tempra del combattente,
ora era diventato un giardiniere. I combattenti si infiammano,
vogliono la vittoria subito. Il giardiniere coltiva, crede
in tempi più lunghi. Lui ora seminava, coltivava".
Ebbene,
come a Eugenio, ci tocca, io penso, oggi un tempo in cui
arare e seminare il campo, ci tocca la semina! Il nome
è bellissimo, "la semina"! E' anche il
nome dell'Associazione che con il Comune di Paderno d'Adda
ha promosso questo incontro.
Le
immagini " arare, seminare" sono anche di Padre
David. Ricordate quando scrisse del padre, fatto orfano
nei giorni della resistenza, orfano di sette figli? Quel
padre ritorna alla terra.
Questo
ci tocca, ora che per disperazione o per disillusione
si è tentati di venir via:
Un uomo è ritornato ai campi deserti:
una
croce di ossa a sorreggere sette cuori.
Aveva sette figli. Tutti ammazzati.
Ghirlande di spine gli era la vecchia madre.
E le nuore e i bimbi fiorivano
come novelle gocce di sangue
giù per il suo corpo esangue.
Raggiustò la casa,
ricongiunse le strade interrotte,
e innalzò nuovi alberi nelle grandi fosse,
e riprese l'aratro e ritornò ai campi.
"A raccolto distrutto,
uno nuovo se ne prepari" disse.!
A raccolto distrutto, uno nuovo se ne prepari!
Angelo
Casati