DANIEL
FIORE DI RISURREZIONE
Oggi,
pomeriggio di Pasqua, mi ero dato un ritaglio di ore per
scrivere. Erano ancora poche le parole su un foglio bianco,
come piccole sorelle smarrite. Poi uno stacco veloce per
un controllo rapido alla posta. E mi sono fermato. Ho
cancellato le mie parole, e non le ho sentite ribellarsi.
Le
ho cancellate, perché ho sentito gli occhi inumidirsi.
E io, contrariamente a quanti hanno in sospetto i sentimenti,
persisto a pensare che il bussare dell'emozione agli occhi
sia un segno..So che se gli occhi si inumidiscono, lì
ti devi fermare.
Tra
la posta avevo trovato un depliant, di una comunità
parrocchiale, quella di S. Nicolò all'Arena nella
città di Verona. Quando tra i messaggi ne intravedo
posta, confesso, ci vado per sete.
Roberto
Vinco e Marco Campedelli sono nella comunità di
S. Nicolò coparroci. Ho avuto la grazia prima di
conoscerli, ora di godere della loro amicizia. Di loro
qualcuno scrisse, ma poi toccai con mano: "Due preti,
un filosofo ed un poeta che con la loro comunità,
cercando di ascoltare il Vento lieve dello Spirito, non
rinunciano a sognare, proprio in un tempo come questo,
dove i sogni sono diventati rari, le profezie si sono
appannate".
Ora
faccio spazio alle loro parole, quelle che mi fecero inumidire
gli occhi. Arrivato alla fine, mi sono ritrovato a sognare.
Tra i tanti sogni anche il sogno di avere, per grazia,
la luce dei loro occhi che leggono vangelo e storie quotidiane
senza separazione di sorta, senza la minima ombra di divorzio.
don
Angelo
DANIEL FIORE DI RISURREZIONE
"Lo
depose dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo mise
in un sepolcro".
Così
il Vangelo di Luca narra della sepoltura di Gesù.
(Lc 23,50-56)
Seppellire i morti è un segno di civiltà,
di pietas, di umanità. Il mito greco di Antigone
ha trovato differenti interpreti.
Una
grande donna dei nostri giorni, Marianela Garcia Villas,
che nel Salvador ha lottato a fianco di mons. Romero,
dava sepoltura ai corpi dilaniati dalla violenza degli
squadroni della morte.
Accade
che anche in una bella città come Verona, conosciuta
nel mondo come la "città dell'amore",
si possa morire proprio sul "Liston", il luogo
più "in" della famosa piazza Brà,
da secoli spazio del passeggio dei veronesi "perbene".
Muore un uomo di trentacinque anni, straniero, un uomo
in carrozzella perché senza piedi. Muore mentre
il sole sta calando, alle sette della sera.
Il
giornale dà una stringata notizia. L'uomo non ha
nome. E' definito un senza fissa dimora.
E' una morte generica in un contesto eccezionale.
Forse
un grande tenore avrebbe desiderato, dopo la sua performance,
morire lì , uscito dall'Arena ( teatro lirico tra
i più noti al mondo) con un bicchiere in mano come
a proseguire il brindisi dell'opera.
Ma
questa morte è ancora più amara, quella
di un uomo che muore al centro della città nella
più perfetta solitudine.
"Egli
si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù"
prosegue il vangelo"
Come
preti e comunità cristiana di San Nicolò
ci siamo chiesti: "Dove sarà finito quel corpo?
Qualcuno avrà chiesto di seppellirlo?" Telefonate,
uffici, telefonate di nuovo, di nuovo uffici.
Il
corpo di un uomo quando entra nel corpo della burocrazia
rischia di andare perduto. " No nessuno ha chiesto
di lui" rispondono infine. Allora diciamo "lo
chiediamo noi" per dargli sepoltura. Fino a quel
momento è "solo un uomo" non ha nome,
non ha volto. "Un uomo" proprio come narra il
Vangelo nella parabola del Buon Samaritano. E ci diciamo
" Non è sufficiente essere un uomo"?
Si chiama Daniel Atomi, è nato nel 1975 in Romania.
Questo è quello che sarà scritto sulla croce
al camposanto.
"Prepararono
aromi e oli profumati" racconta Luca.
Non
sarà un funerale anonimo. Sarà celebrato
nel cuore della città, esattamene come nel cuore
della città quell'uomo è morto. Non sarà
un funerale cattolico. Non vogliamo appropriaci di un
corpo, di una memoria, per rendere più presentabile
una chiesa. Sarà un funerale ecumenico. Un funerale
cristiano in cui il rito ortodosso e cattolico vivranno
la legge dell'ospitalità. E insieme alla lingua
di questa nostra terra le preghiere risuoneranno nella
lingua materna di Daniel, nella lingua della Romania.
Da quando quel corpo ha un nome si ricostruisce pian piano
una trama. Perché non aveva piedi Daniel? Perché
in un campo minato da bombe, eredità vergognosa
della guerra, era andato a raccogliere il pallone di ragazzi
che stavano giocando laggiù nel suo paese. Così
la guerra gli ha portato via i piedi. Ma nessun ragazzo
è saltato in aria.
La
guerra esplode anche dopo che è finita. Continua
ad esplodere nel cuore della terra.
Quell'uomo era passato in questa città, era stato
accolto alla "Locanda" dai volontari della Caritas,
proprio come l'uomo di cui si parla nella parabola del
Buon Samaritano. Dei giovani volontari ricordano di aver
versato su di lui "olio e vino". Di aver lavato
il suo corpo, medicato le sue ferite. Daniel ora ha un
nome e anche un volto.
"
Il giorno di sabato osservavano il riposo come era prescritto",
dice il vangelo.
Riposo
come riflessione, come stacco dal tempo frenetico della
città.
Un
tempo per pensare. Un tempo di silenzio, così necessario
e talvolta così imbarazzante per chi con le parole
coltiva l'oblio.
In
chiesa c'è molta gente. Gli adolescenti cantano
i canti ecumenici di Taizè. Risuona il vangelo
di Lazzaro e del ricco epulone, là dove si narra
che Dio non dimentica il nome del povero.
Le
litanie e le preghiere nella lingua rumena sembrano come
la cantilena di una madre che addormenta il figlio stretto
al suo seno.
È
come se quel rito avesse dato dignità a quella
morte. Avesse tirato fuori dal sepolcro quell'uomo : "
Lazzaro vieni fuori!"
Sul
marciapiede del "Liston" Daniel era solo un
mucchio di stracci. Ora sembra un principe, è lui
ora "il Figlio dell'uomo vestito di gloria".
Si
raccolgono frammenti della sua vita. Un amico del suo
Paese dice che aveva moglie e una bambina.
Si
vorrebbe ritrovarle, dire loro che Daniel ha avuto una
sepoltura degna di un uomo, che riposa non dimenticato
nella terra del cimitero. Si vorrebbe aiutare quella bambina
a crescere. Mettersi sulle sue orme, ritrovarla e portarle
l'ultima carezza del padre.
Il
rito termina. I giovani, prima che la bara esca di chiesa,
vanno di corsa verso il campanile e suonano le campane
a distesa.
All'inizio
era stata letta le poesia di Ungaretti "Si chiamava
Mohammèd Scèab
" dove il poeta
parla della morte di un uomo da tutti dimenticato e che
conclude così : "L'ho accompagnato insieme
alla padrona dell'albergo dove abitavamo a Parigi [
]
Riposa nel camposanto d'Ivry [
] E forse io solo
so ancora che visse".
No,
dicono i ragazzi, la città deve sapere. Bisogna
risvegliarsi, aprire gli occhi e le orecchie.
Uno
di noi si avvia al camposanto. Solo con il corpo di Daniel.
Una vecchia donna al camposanto chiede chi sia quel morto
senza corteo. " E' un giovane straniero, si chiama
Daniel
" sussurra il prete. La donna si mette
al suo fianco e dice nella lingua dei poveri " Vengo
io con voi: io sono la madre
"
E
getta poi nella fossa un fiore prima che la terra copra
il corpo di "suo figlio". Il prete si volta
e gli sembra di vedere anche una giovane donna e una bambina
e poi un intero popolo in piedi.
Finisce
il giorno nel silenzio e "
già splendevano
le luci del sabato".