DIMMI
CHE NON SARÁ LA MORTE
Sarà perché in questi giorni l'aria ancora odora di Pasqua
e vengo dall'aver sostato con occhi sgranati al grido
di morte del Signore Gesù e al suo andare, dopo tre giorni,
per vie di vento tra giardini, cenacoli, rive di lago
e sommità di monti o sarà perché ancora negli occhi indugia
il pesare inanimato di corpi su corpi di una nazione da
sempre impoverita, in terra di Haiti o sarà per l'ultimo
saccheggio, che ognuno si porta in cuore, per furto di
morte di una persona cara o sarà per l'età che mi fa sentire
come fosse alle porte l'ora o sarà per altro che non conosco,
il fatto è che non mi riesce di negarmi il pensiero della
morte e con il pensiero un sentimento di paura che forse
tutti, al suo apparire, sentiamo filtrare alla punta estrema
del cuore.
Una
generazione, la nostra, che, al dire di tanti, si illude
di allontanare la paura della morte, rimuovendo e censurandone
il pensiero. Censura debole, a prova di terremoto. Censura
illusoriamente forte, ma ingenua e insipiente, nella mente
di chi pervicacemente va immaginando per sé terre blindate.
Meglio non sarebbe, mi chiedo, riconoscere che ci abita
la paura e disegnare vie per reggerla, così che non sia
devastante per il cuore?
Comincerò
con il confessare che, per uno come me che cerca, da povero
cristiano, di spiare Gesù e la sua vita, per lasciarsene
in qualche misura contagiare, è fonte non piccola di consolazione
il fatto che Gesù stesso della morte abbia provato turbamento.
Lo confesso, me lo sarei sentito meno vicino, meno compagno
del viaggio, se non ne avesse spartito con me il turbamento,
se verso la morte fosse andato con passo spavaldo, da
eroe, il forte cui non trema il cuore. Leggo invece nei
Vangeli che al profilarsi della sua ora, senza nascondimenti
né vergogna, disse ai suoi: "Ora l'anima mia è turbata".
Leggo che, nell'orto, in vigilia di morte "cominciò a
spaventarsi e a sentire angoscia". Confessò tristezza:
"Ora" disse "l'anima mia è triste fino alla morte" (Mc
14,33-34). E gli ulivi lo videro sudare sangue di morte.
Forse
per questo, o anche per questo, non provo scandalo né
per il Vangelo di Marco che di Gesù sulla croce, come
ultima voce prima che spirasse, ricorda il grido, un grande
grido che sembrò impigliarsi al cielo, da tre ore fatto
buio, né provo scandalo per uomini e donne che sembrano
nel loro morire rivivere il grido del salmo di Gesù sulla
croce: "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?" e
oso anche sperare che se questo sarà il mio grido, l'ultimo,
qualcuno anche di me abbia tenera e larga compassione.
Il
grido sembrò senza eco nei cieli, ma fu risposta, risposta
di luce e di vento dopo tre giorni, fu l'avverarsi della
piccola parabola che Gesù insegnò ai suoi, proprio il
giorno in cui sentì l'anima turbata, la piccola parabola
del chicco di grano che, cadendo nell'invisibilità buia
della terra, proprio nella sua morte si apre al sussulto
di nuovo germoglio. E fu transito dopo tre giorni, fu
un andare per vie di vento. Se tu mi racconti la parabola,
la piccola parabola, sento arretrare la paura. Vorrei
che qualcuno me la ricordasse nell'ultima ora.
Volontà
di risurrezione
Così
come vorrei che qualcuno mi ricordasse, ad arretramento
di paura, la volontà di Dio, quella vera. Troppi ce l'hanno
insegnata identificandola nell'immagine della sofferenza
e della morte: "È la volontà di Dio" ci ripetevano, instancabili,
in verità senza cuore. Ma che cosa è volontà di Dio l'ho
rinvenuto scritto nel Vangelo di Giovanni là dove Gesù,
senza possibilità di ambiguo equivocare, dice ai suoi:
"Questa è la volontà di colui che mi ha mandato. Che io
non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti
nell'ultimo giorno" (Gv 6,39). Questa e non altra la volontà
di Dio, volontà di risurrezione, questa la parola che
fa arretramento di paura.
Forse
qualcuno ricorderà che, il giorno prima del suo transito,
al nipote Saverio che stava in piedi, a capo del suo letto,
papa Giovanni XXIII disse con forza: "Scostati, mi nascondi
il Crocifisso". Era come se dicesse: "Se tu mi copri il
Crocifisso, mi nascondi l'immagine di colui che non perde
nessuno, io ho bisogno di sapere che non mi sta perdendo,
nessuno mi può strappare dalle sue mani".
Al
cuore mi ritornano i versi suggestivi di Donata Doni in
una sua poesia "Dimmi che, non sarà la morte":
Sarà
come incontrarti
per
le strade di Galilea
e sentire il battito di luce
delle tue pupille divine
riscaldare il mio volto.
Sarà
la Tua mano
a prendere la mia
con un gesto d'amore
ignoto alla mia carne.
Dimmi
che non sarà la morte,
ma soltanto un ritrovo
di amici separati
da catene d'esilio.
Dimmi
che non saranno
paludi d'ombra
a sommergermi,
né acque profonde
a travolgermi.
Solo
il Tuo volto,
solo il Tuo incontro, Signore.
Ti
confesso che altre parole mi sono care e mi risuonano
dentro, a respingimento di paura di morte. Sono parole
che mi succede spesso di ricordare quando penso ai molti
miei amici non credenti. Una di queste parole riguarda
l'amore. Ebbene neanche la morte, all'apparenza così vincente
su tutto e su tutti, può cantare vittoria sull'amore,
ne esce sconfitta.
Aggiungendo
un supplemento di forza al Cantico dei Cantici potremmo
dire: "Più forte della morte è l'amore". Come ci ha ricordato
la morte di Gesù. Ha così amato che è risorto, un amore
simile non poteva rimanere costretto in una tomba. L'amore
non sta in una tomba, ha passi di vento.
Come
ci ricorda una lettera di Giovanni, dove trovo scritto:
"Da questo sappiamo che siamo passati dalla morte alla
vita, perché amiamo i fratelli. Chi ama rimane nella morte".
Mi colpisce il presente: "Oggi" è detto, "passiamo dalla
morte alla vita perché amiamo". "Chi non ama rimane nella
morte" come a dire che è già morto da questa vita. Questo,
dunque, il discrimine: se amiamo o non amiamo.
Al
cuore mi ritornano le parole di Eugenio Scalfari, un non
credente che, in un suo dialogo emozionante con il cardinale
Carlo Maria Martini, su "Repubblica" scriveva: "La vecchiaia
restringe la nostra vitalità, limita le capacità del corpo
e concentra quelle delle mente. In alcuni il desiderio
del potere soverchia gli altri.
È
patetico vedere come alcuni vecchi restino aggrappati
al potere, la loro zattera di salvataggio che non li porterà
ad alcuna salvezza, la loro rabbia nel vederselo strappato
brano a brano, la solitudine del loro io denudato giorno
per giorno dagli orpelli dei quali l'avevano rivestito.
Altri si effondono nell'amore. Non dico nell'erotismo,
dico amore. Amore per gli altri e per quelli a loro più
prossimi, quelli dai quali hanno ricevuto amore e ai quali
l'hanno restituito.
Quando
questo avviene, l'io non è solo, non è denudato, non è
disperato, anzi è più ampio e più ricco. Non ha nessun
bisogno di chiamarsi e di sentirsi io, ma si sente noi
e quella è la sua ricchezza. Oggi è il giorno di tutti
i santi, ma non ci sono santi laici, ci sono soltanto
anime amorose che lasciano lungo la strada il pomposo
mantello dell'egoismo e indossano quello della compassione
con il quale ricoprono sé e gli altri.
Lei,
carissimo cardinale Martini, ha un amplissimo mantello
di compassione, di passione per gli altri. Col suo mantello
ricopre anche me talvolta come il mio può ricoprire anche
lei. Per questo la Nera Signora non ci spaventa. È per
questo sia lei che io sentiamo nel cuore il messaggio
che incita all'amore del prossimo.
A
lei lo invia il suo Dio e il Cristo che si è incarnato;
a me lo manda Gesù, nato a Nazareth o non importa dove,
uomo tra gli uomini, nel quale l'amore prevalse sul potere".
don
Angelo