Pensare
in modo aperto
La
mattina di sabato 28 marzo, non mi sarei aspettato di trovare
la sala di via S. Antonio 5, affollata. Mi prese anche una
sorta di tenerezza per alcuni dei presenti che dovettero
partecipare ai nostri discorsi rimanendo per larga parte
della mattinata in piedi. Il Convegno era stato organizzato
da alcuni gruppi cattolici milanesi, che, fortemente radicati
nell'amore alla parola di Dio, si sentono richiamati pr
fedeltà al vangelo a scrutare i segni dei tempi lungo
il cammino che condividono con le donne e gli uomini del
nostro tempo. Il convegno proponeva riflessioni a partire
del libro-intervista del Card. Martini: "Conversazioni
notturne a Gerusalemme" e ne metteva a tema due suggestioni
ricorrenti nel libro, la prima su "pensare in modo
aperto", la seconda su "la relazione".
Ho condiviso, la mattina di sabato, con le amiche e gli
amici che mi avevano invitato alcune riflessioni che ora
vorrei allargare a tutti voi.
Pensare
in modo aperto. Vorrei dirvi che già un sussulto
mi viene dal titolo dato al Convegno. Mi sono chiesto: si
può forse dare un pensiero se non è aperto?
Il pensare non presuppone cammino, rivelazione, svelamento,
togliere veli? Non è contestazione della verità
immobile, non è riconoscimento di un limite, che
va continuamente superato? Riconoscimento delle ombre del
pensiero e della vita?
E'
raro incrociare uomini di chiesa, che, anziché fare
lamento sulle idee a volte confuse, ricordino a tutti alcune
parole di Paolo, vere per tutti, e dunque anche per loro.
Paolo - e usava il "noi", ci si metteva - diceva:
"Ora vediamo come in uno specchi in maniera confusa,
ma allora vedremo faccia a faccia" (1 Cor, 13, 12).
"In maniera confusa": ammetterlo, secondo me,
è gia un parlare in modo aperto.
E
allora, a costo di apparire un bastian contrario, vi dirò
che mi è cara questa dimensione umbratile della vita
e vorrei quasi pregare che Dio me ne lasciasse una qualche
misura. Anche nell'aldi là.
Ricordo
che in un vespero, in faccia ai monti, stupito dal lento
intenerirsi del cielo, mi venne di pregare:
E
se sarà un giorno
luce piena nel tuo regno,
non negare, o Dio,
a questi poveri occhi
il crepitare segreto delle ombre.
Abito città
dove il sole è sempre
già alto.
Vi
siete accorti che sto dicendo male la suggestione che apre
il libro del Cardinale e gli dà il sapore, un sapore
buono, una delle intuizioni, certo non l'unica, che danno
profumo di pane buono al libro, l'intuizione della notte.
Il Cardinale nella prefazione, riferendosi al fatto che
quelle conversazioni tennero le ore della notte, dice: "di
notte le idee nascono più facilmente che nella razionalità
del giorno". Capite, notte come grembo. E allora ci
meravigliamo che una chiesa appiattita sulla razionalità
del giorno sia sterile? Notte come grembo. Grembo dice nascita,
dice vita, e non ripetizione.
E
dunque c'è un modo aperto di pensare la pastorale?
Vado per accenni.
Un
modo aperto di pensare Dio e il suo mistero. Deborda il
mistero, fuori dai bordi.. E dunque noi siano relativi.
Pensarci, sentirci, nella pastorale, relativi. Sentirci
poca cosa. L'assolutezza ci fa chiusi nel pensiero, nella
predicazione, ci fa arroganti. Sentirci assoluti ci chiude.
Il relativismo apre, ci toglie l'arroganza che chiude. Sentirci
relativi significa pensare e agire nella pastorale con la
convinzione che non siamo noi la salvezza, la chiesa è
relativa, relativa all'unico vero assoluto, Dio e il suo
regno, relativa a un assoluto che ci supera da tutte le
parti. Dio ha anche altre strade che non sono le nostre.
Siamo chiamati a crederlo quando incrociamo sentieri che
non coincidono con quelli cosiddetti canonici.
Questa consapevolezza ci fa usare più spesso una
piccola parola che non troviamo mai o quasi mai nei documenti,
nelle dichiarazioni ecclesiastiche - l'avete forse trovata
qualche volta? - la paroletta "forse". Non l'
"aut aut", ma l' "et et": è questo
ma anche altro.
Gesù
usava le parabole, raccontava. Noi non usiamo parabole,
non raccontiamo, proclamiamo principi. Lui usava parabole
perché le parabole hanno nel loro incipit un relativo:
"Il regno di Dio è come". Non dice "è",
non dà la definizione, la definizione chiude. Diceva:
"E' come": assomiglia, ma è anche altro".
Altro dai nostri pensieri. E allora quello che ti senti
di dire, dillo sottovoce. Con rispetto della Parola, l'unica
assoluta, quella del tuo Dio. E con rispetto dell'intelligenza
e della fede di chi ascolta.
L'urlo
chiude, il sottovoce apre. L'aria di chi vuole farla da
maestro chiude. E' vero, chiamiamo la chiesa "mater
et magistra" ma poi ci tocca qualche contorsione, quando
arriviamo al cap. 23 di Matteo con quel "non fatevi
chiamare maestri, uno solo è il vostro maestro e
non fatevi chiamare rabbi, perché uno solo è
il vostro rabbi e voi siete tutti fratelli".
Un
passo avanti certo è aver abbandonato nella nuova
traduzione della CEI la scorretta versione del passo di
Matteo 28, 19, dove si faceva dire a Gesù: "andate
e ammaestrate". No "mazetheusate" in greco.
E dunque "fate discepoli". La differenza è
enorme. Non si tratta di indottrinare ma di affascinare.
Pensate la bellezza: affascinare gli altri di Gesù
e del suo vangelo. Non è rinchiudere Gesù
in una tomba di codici e definizioni, ma aprire cammini
dietro di lui. E chissà dove vanno. Abbiamo abbandonato
la vecchia versione, ma pensate il tempo che ci vorrà
ad abbandonare uno stile imperante, da secoli imperante!
Il tono alto fa gregari, non affascina nessuno. Anzi allontana.
Mi
bussano alla mente le parole di un poeta e scrittore francese
che altre volte mi è capitato di citare e che non
finisce mai di provocarmi. Scrive Christian Bobin: "Ho
trovato Dio nelle pozzanghere d'acqua, nel profumo del caprifoglio,
nella purezza di certi libri e persino in certi atei. Non
l'ho quasi mai trovato presso coloro il cui mestiere consiste
nel parlarne". Ma ce ne accorgiamo che molti se ne
vanno per questo? Trovano parole e non trovano Dio.
Pensare
in modo aperto nella pastorale significa anche un modo di
guardare gli altri, un guardarli non nella cifra della minorità,
o della dipendenza, che è una cifra che chiude. Vuol
dire, costruire una chiesa "soror et ministra".
Ce lo ricordava mesi fa qui Grazia Villa citando un libro
di Fulvio De Giorni. "Soror", sorella, una parola
che evoca il sentirsi alla pari, non uno sopra e uno sotto.
Una parola che evoca l'assenza di ogni distanza. Uguali
e non diversi dalla moltitudine dei piccoli della barca.
Uguale
e non diverso, il cardinale in questo libro. Lo senti uguale
con i suoi interrogativi, i suoi dubbi e le sue paure. La
stessa barca, tutti a remare insieme, con uno stile di "sororità",
in "un clima accogliente di rispetto vero e incondizionato;
un'atmosfera di fiducia e discrezione; rapporti interpersonali
paritari tra uguali", dove non contino le gerarchie
o contino meno, molto meno della bellezza della fraternità,
una comunità dove il
brusio vero sia quello della relazione.
Quante volte nell'intervista il cardinale, sovvertendo il
principio gerarchico, dice di aver imparato. Imparato dai
giovani! Nell'intervista il confratello gesuita gli pone
una domanda "Invece di essere lei a predicare, lascia
che sia la gioventù a illuminarla. Un nuovo principio
pastorale?"
Risponde
il Cardinale: "Nella gioventù ho trovato la
più valida conferma di tale principio pastorale,
sempre che di questo si tratti. Nella Chiesa nessuno è
nostro oggetto, un caso o un paziente da curare, tanto meno
i giovani. Perciò non ha senso sedere a tavolino
e riflettere su come conquistarli o su come creare fiducia:
deve essere un dono. Sono soggetti che stanno di fronte
a noi, con cui cerchiamo una collaborazione e uno scambio.
I giovani hanno qualcosa da dirci. Essi sono Chiesa, a prescindere
dal fatto che concordino o meno con il nostro pensiero e
le nostre idee o con i precetti ecclesiastici. Questo dialogo
alla pari, e non da superiore a inferiore o viceversa, garantisce
dinamismo alla Chiesa: In tal modo l'affannosa ricerca di
risposte ai problemi dell'uomo moderno si svolge al cuore
della Chiesa" (pag. 47).
Pensare
in modo aperto evoca quindi un modo di pensare e di vedere
coloro che sono più all'interno della comunità
ecclesiale, e cioè vedere in essi fratelli e non
sudditi, onorarli come fratelli! Da cui imparare.
Ma
evoca anche un modo di pensare e di vedere coloro che sono
sulla soglia o stazionano lontano. E sono la maggioranza.
Case vuote le loro o case abitate? Il pensiero chiuso, che
non è pensiero, ma pregiudizio, le dice "case
vuote" , le loro.
Secondo
il cardinale il modo di pensare si fa chiuso per due motivi,
che anche la mia piccola esperienza mi fa riconoscere: chiuso
il modo di pensare primo perché gli altri non li
conosciamo, secondo perché non conosciamo la Bibbia.
Certo
finché non entri nella casa dell'altro, come Pietro
nella casa del centurione, potrai anche pensare che nella
casa dell'altro non ci sia alito di vento dello spirito.
C' è un parlare oggi degli altri come di case disabitate
dallo Spirito. No, entra. Ma non per predicare, non entrare
con le omelie già fatte. Entra per ascoltare e provare
stupore per lo Spirito che ti ha preceduto. Ma, ditemelo
voi, dove mai?
E
l'altro difetto che ci nega il pensiero aperto nei loro
confronti è l'ignoranza delle Scritture: "Chi
legge la Bibbia e ascolta Gesù" dice il Cardinale
"scoprirà che lui si meraviglia della fede dei
pagani. In un passo non propone come modello il sacerdote,
bensì l'eretico, il samaritano. Quando pende dalla
croce, accoglie in cielo il ladrone. Il miglior esempio
è Caino: Dio segna Caino per proteggerlo e far sì
che nessuno possa ucciderlo...Nella Bibbia Dio ama gli stranieri,
aiuta i deboli, vuole che soccorriamo e serviamo in diversi
modi tutti gli uomini. L'uomo invece, e anche la chiesa,
corrono sempre il rischio di porsi come assoluto" (ib.
pag. 20).
Pensare
e sentire in modo aperto, credetemi, è anche affare
di cuore, è pensare con il cuore. E' partire non
come fanno gli uomini maschi troppo spesso dall'alto, dalla
razionalità, dalla sistematicità che contrae
la vita, ma, come potrebbe insegnarci il femminile. Se fosse
riconosciuto dalla chiesa. Pensare partendo dal basso, dalla
fragilità che connota la vita, dai piccoli semi,
con l'atteggiamento della pietas. La vicenda di Eluana,
che ci ha tanto segnato, ha richiamato in molti di noi ma
anche in molti laici questa dimensione della pietas, che
si china e rialza dal basso.
E
vorrei dirvi come questo guardare con pietas non solo è
un guardare aperto in sé ma ha come esito quello
di aprire, apre insospettati cammini. Penso a quanto fremere
di pensieri ha suscitato questo libro del Cardinale, anche
per questa pietas che lo percorre dalla prima all'ultima
pagina.
E
allora vorrei finire leggendovi due e-mail che mi sono giunte
in questo mese, due tra le centinaia, come eco a un articolo
che avevo scritto sulla vicenda di Eluana e dei suoi genitori:
sono di una donna e di un uomo. Ora conosco qualcosa del
loro cuore, anche se ancora non conosco il loro volto.
Scrive
la donna:
Caro don Angelo,
le scrivo per ringraziarla delle sue parole... Per caso
ho letto il suo intervento, la sua riflessione sulla vicenda
di Eluana.. Non è per la vicenda in sé, ma
le sue parole.. Io mi ritengo, sebbene non abbia certezza,
dato che non conosco verità assolute e indiscutibili,
una non credente.. o comunque una persona alla ricerca,
di un modo per leggere il mistero della vita.. Ma nel suo
scritto ho sentito per la prima volta il vangelo, la parola
di Gesù.. non l'ho letta, non l'ho interpretata,
ma l'ho sentita dentro, l'ho sentita nel cuore, una luce,
qualcosa di più grande di me e mi sono sentita bene
davvero bene.. Commossa di avere sentito il profumo di qualcosa
di buono, che ho condiviso con gli amici.. quelli veri..
in silenzio, perchè solo nel silenzio si può
percepire il mistero della vita e talvolta abbiamo bisogno
che qualcuno all'improvviso ci presti i suoi occhiali per
capire la direzione.. Grazie, infinite grazie.. per i suoi
occhiali, ma non glieli rendo.. sono certa che ne ha una
scorta infinita!!
In
questi giorni questa donna è entrata in una libreria.
A comprare un vangelo.
Scrive
l'uomo:
caro
don Angelo,
ho potuto leggere grazie a un'amica le parole che lei ha
scritto tempo fa
sul caso Englaro, che mi hanno molto colpito per la loro
carica di umanità e di rispetto.
Io non sono cattolico, ma mi addolora vedere con quanta
violenza una parte
del mondo cattolico tenta di imporre la propria (legittima)
visione delle
cose anche a chi (altrettanto legittimamente) non la condivide
- e da parte
sua, almeno in questo caso, non tenta di imporre niente
a nessuno, ma solo
di garantire quella libertà di coscienza che dovrebbe
essere un valore
prezioso per tutti (penso naturalmente alla legge approvata
oggi in senato)
mi addolora perché mi considero un uomo di pace e
credo che queste violenze
suscitino sentimenti di astio e rancori che certo non contribuiscono
a
diffondere nella nostra società e nella nostra vita
quotidiana i valori del vangelo e del messaggio cristiano
volevo quindi ringraziarla per quello che ha scritto e incoraggiarla
a
diffondere le sue riflessioni - da parte mia, ho trasmesso
a tutti gli amici
e i conoscenti le sue parole così buone e sagge,
ricevendo risposte davvero
meravigliose: ma già sappiamo che il bene, a dispetto
delle apparenze, è diffusivum sui
ancora grazie.
don
Angelo
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