DIO
CERCA LA FESTA
Raduno
pensieri sparsi. Non finisce di risuonare - e ci auguriamo
non finisca, ma anzi prenda sempre più vigore - la parola
di Gesù, non rintracciabile nei Vangeli ma autenticata da
Paolo come parola di Gesù: "Si è più beati nel dare che
nel ricevere" (At 20,35). C'è una gioia dunque - è parola
affidabile - nel dare. Ma il detto di Gesù - per via di
indebiti fraintendimenti - potrebbe evocare, come esperienza
meno spirituale o evangelica, la gioia che nasce dal "ricevere".
Quasi fosse da guardare con un certo sospetto. Quasi vi
fosse impigliata una sorta di cedimento ai sentimenti, quasi
una "diminutio" dal punto di vista spirituale. Ma come potremmo
dimenticare la gioia che ci dà il volto dell'altro invaso
di tenerezza e stupore per il dono che gli è stato fatto?
Non sarà mai un volto spento ad innamorarti. E perché contenere
la festa? La festa si fa visibile e brilla. Anche Dio sente
gioia per la tua festa. Gode del suo popolo non nel momento
della privazione, ma nel momento in cui lo vede gioire di
ciò che ha ricevuto. Spirituali non siamo - a mio avviso
- quando conteniamo la gioia ma quando, riconoscendo il
dono, la celebriamo. Si affollano, mentre ne scrivo, parole
e immagini delle scritture sacre, che vorrei rileggere,
non dall'alto di una esegesi che non mi appartiene, ma dalla
piccolezza di un lettore che prova sussulti e si commuove.
Al cuore mi ritorna un passo del rotolo di Isaia dove Dio
fa promessa per il futuro del suo popolo. Nel brano è come
se assistessimo a una sorta di specchiamento, specchiamento
della gioia: viene gioia a Dio dalla gioia che vede nei
suoi figli. Leggo: "Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e
nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà
più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello
che sto per creare, poiché creo Gerusalemme per la gioia,
e il suo popolo per il gaudio. Io esulterò di Gerusalemme,
godrò del mio popolo" (Is 65,17-19). Qualcuno, carico d'anni
come me, non ha di certo dimenticato la risposta del catechismo
della sua fanciullezza alla domanda: "Per qual fine Dio
ci ha creato?". Era scritto e mandavamo a memoria: "Dio
ci ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa
vita, e per goderlo poi nell'altra in paradiso". Ci fa sussulto,
sussulto al cuore, leggere nelle parole del profeta che
in primo piano per Dio siamo noi e la nostra gioia: "Creo
Gerusalemme per la gioia e il suo popolo per il gaudio.
Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo". Mi si
perdoni, forse possiamo dire che anche Dio è in cerca di
gioia e la trova nella gioia di chi lo accoglie. Troviamo
scritto nel libro dell'Apocalisse: "Ecco: sto alla porta
e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta,
io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (3,20).
Dio bussa, anche lui in cerca - chi bussa cerca! - , in
cerca di qualcuno che oda il bussare: la porta che si apre
e la tavola che viene apparecchiata diventano la sua gioia,
una gioia che si mescola a quella di chi ha aperto. A volte
al cuore mi ritorna il prato verde del vangelo e, sul prato,
l'avventura di cinque pani d'orzo e due pesci, regalati
da un ragazzo senza nome. Pani e pesci - quasi un niente!
- ebbero l'avventura, nelle mani di Gesù, di sfamare i cinquemila.
Il pane era passato di mano in mano e pure i pesci, per
una sorta di condivisione La gente mangiava e si raccontava
sul prato. Distribuzione avvenuta! Per di più con un avanzo.
E io mi sorprendo a immaginare Gesù che quella scena se
la beveva con gli occhi. Lui non defilato, ma immerso in
quel banchetto a cielo aperto: quel brusio sul prato era
per lui narrazione del regno di Dio. La festa sul prato
si era accucciata nei sui occhi. Lui il primo a goderne.
Anche Dio è in cerca di gioia e la sua gioia sei tu quando
ti fai accogliere. La festa è negli occhi di Dio quando
la sala del convito, che contava purtroppo ancora alcuni
vuoti, si fa piena. Ce lo ricorda la parabola di Gesù nel
vangelo di Matteo ( Mt22,1-15). Il re che invita, invitando
fa un regalo agli invitati, ma gli invitati che rispondono
diventano a loro volta regalo per lui. Dio cerca la festa.
Non fraintendere Dio. Non pensare che per onorarlo tu non
debba cercare e onorare la festa. Penso che non siano una
bella notizia per Dio coloro che presumono di dare di sé
l'immagine di chi dà e non invece anche quella di chi si
fa accogliere. Loro danno dall'alto della loro superiorità
Spesso senza gioia vera, senza festa. Con un viso da "mortificazione",
e non con il viso in cui splenda la gioia dei "piccoli"
che ricevono. Sono strutturati, ma mancano di eleganza.
C'è una eleganza del vivere che dà giorni buoni, non solo
a noi, ma anche agli altri. La loro è una spiritualità in
cui sembra aver valore solo il peso: per loro le cose che
valgono sono quelle che ti costano, mai e poi mai quelle
che ti danno gioia. Sarà perché sono di natura un bastiancontrario,
ma devo confessare che, quando il nostro "Te Deum" veniva
cantato nelle chiese in lingua latina, mi prendeva una sorta
di tristezza quando si arrivava nel ringraziamento alle
parole: "Tu ad liberandum suscepturus hominem non horruisti
virginis uterum". Ringraziare Dio perché al momento in cui
desiderò salvare l'uomo non aborrì l'utero della Vergine!
Mi chiedevo se il Figlio di Dio doveva sentire come un peso,
quasi un orrore a cui benevolente assoggettarsi e di cui
aver merito, l'accucciarsi in un grembo di donna. Diamo
onore a Dio attribuendogli il superamento di un disagio
per il suo contenimento in un utero o non invece attribuendogli
la gioia di essere accolto nel piccolo grembo, spazio caldo
e tenero di una ragazzina di Nazaret, di nome Maria? Perché
- mi chiedo - non immaginare che Dio canti la sua gioia
per il dono di un utero che gli si apre? La gioia nell'essere
accolto? E non è forse vero che l'episodio che segue nel
vangelo di Luca, quello della visitazione, va a raccontare
gioia e non a senso unico? Ne sono una prova luminosa le
due donne abbracciate sull'uscio di casa, sui monti di Giuda,
una avanti negli anni, già gonfia di sei mesi, di nome Elisabetta,
l'altra giovanissima, gonfia solo di alcuni giorni, di nome
Maria da Nazaret? L'una e l'altra con in cuore il desiderio
di raccontarsi a lungo nella casa il segreto che le abitava.
E fu pentecoste sull'uscio di casa, pentecoste, cioè festa
di pienezza in un abbraccio. Gli occhi abitati dalla gioia
di essere accolte l'una dall'altra. Non era forse questa
la gioia di Gesù, accusato di mangiare e bere con peccatori
e pubblicani? Non era la gioia che gli rimproveravano i
cosiddetti uomini dello spirito, che morivano di rabbia
per le voci di festa che venivano da quei pranzi sospettati?
Lui ci si trovava bene. Nella casa era entrata la salvezza,
proprio in quella casa dove si banchettava! Gli uomini dello
spirito erano fermi al digiuno, con un pregiudizio sul godere,
godere delle cose belle e buone della vita. Forse avevano
cancellato dalla loro memoria le parole del libro del Qoelet:
"Su, mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con
cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere. In
ogni tempo siano candide le tue vesti e il profumo non manchi
sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami per tutti
i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto
il sole, perché questa è la tua parte nella vita e nelle
fatiche che sopporti sotto il sole" (Qo 9,7-9). La donna
che ami, il tuo pane, il tuo vino, le tue vesti E anche
il profumo. E, a proposito di profumo, mi viene spontaneo
immaginare quale gioia sia rimasta nel cuore di Gesù per
le mani di donna che lo ungevano e lo profumavano! Lui che
non solo riconobbe la tenerezza del gesto, ma si alzò sempre
a difendere le donne che erano arrivate a tanto! Noi siamo
arrivati a un sospetto, sospetto della donna e del profumo.
Il profumo. Forse qualcuno di noi ha avuto l'occasione di
leggere quanto ultimamente ha scritto sul profumo un uomo
che per vocazione di vita coltiva la spiritualità, un monaco,
il priore del monastero di Bose, Enzo Bianchi. "In ebraico"
scrive "il termine profumo - reach - richiama lo spirito,
il soffio, il vento - ruach - anche perché il profumo si
espande portato dal soffio, dal vento. Ora, tra questi effluvi
ci sono innanzitutto i profumi che abbiamo conosciuto nell'infanzia
e che ci accompagnano per tutta la vita: aromi legati ai
cibi preparati da nostra madre o dalla nonna, profumi "di
casa". Più tardi abbiamo conosciuto i profumi dell'amore:
quelli che noi stessi sceglievamo per profumarci, quelli
della persona di cui eravamo innamorati, i profumi di un
incontro atteso e preparato… Quale gioia riconoscere la
presenza della persona amata attraverso il profumo, prima
ancora di vederla! Era come se il profumo fosse l'araldo
di una venuta desiderata. Non a caso nel Cantico dei cantici
i profumi caratterizzano la stagione dell'amore, sigillano
la presenza dei corpi degli amanti, il cui nome è così performativo
da essere paragonato al profumo: "Profumo che si spande
è il tuo nome!" (in "Jesus",'agosto 2016). Posso sbagliarmi
ma nella semplicità dell'accogliere un dono, nel riconoscerlo,
nasce non solo la gioia, ma anche la festa. La festa, parte
integrante della gioia. La festa che in certa misura sembra
perdere la sua singolarità in tempi come i nostri in cui
il pericolo è l'appiattimento dei giorni - uno uguale all'altro
- quasi avessimo scordato - era un simbolo -- il rito del
vestito della festa. Al vestito della festa, luminoso nella
sua semplicità, era legato un soffio di gioia. A volte anche
i riti, come atti dovuti, corrono il rischio di perdere
il sapore, il profumo della festa. Perfetti nella loro solennità,
una solennità a volte enfatica e algida. I riti e anche
le omelie. Osservando mi è capitato di scrivere: L'omelia
la noia degli assenti. Il tuo racconto il brivido degli
occhi e l'incolmabile stordente distanza. Qualcosa del profumo
della festa sembra ancora illuminare le teologie e i riti
delle chiese latino-americane, dove il fiore e il canto
non mancano mai e pervadono di bellezza le celebrazioni.
La bellezza come fonte di gioia. Parlandone in un suo libro
Elizabeth Johnson scrive: "Il senso della bellezza intrecciato
con la verità e la bontà divina, rende Dio riconoscibile
nell'immaginazione spirituale della comunità ispaniche.
Il volto divino che si coglie nei simboli, nei riti, nella
musica, nella danza, nelle drammatizzazioni e nelle storie
popolari è semplicemente pervaso da una sensibilità estetica
che tutto sovrasta, senza la quale parlare di Dio sarebbe
una cosa fredda e lontana. (…) La loro teologia sottolinea
la dimensione dell'essere umano come homo ludens, che gioca.
Essere umani significa festeggiare e smettere di essere
produttivi di merci da contare ed entrare in relazione con
il significato profondo della vita. Ecco ciò che compie
la fiesta. Attingendo alle risorse affettive, immaginative
ed estetiche della comunità, essa fa 'sentire' l'essere
una sola cosa con Dio, gli altri, il cosmo e se stessi".
Mi si perdoni, ho divagato come mi succede. Non posso finire
se non dicendo la commozione che mi prende ogni volta che
nel vangelo leggo: "Io vi dico: ci sarà gioia nel cielo
per un solo peccatore che si converte più che per novantanove
giusti che non hanno bisogno di conversione". Io che ho
bisogno di conversione un po' mi inorgoglisco al pensiero
che facendomi accogliere ho addirittura il "potere" di portare
gioia nei cieli, davanti agli angeli di Dio. Piccola pecora
in smarrimento come sono, pecora di cui il pastore va in
cerca, povera moneta come sono, che una donna ha perduto,
per cui accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente
finchè non la trova. Non sono che una povera pecora, una
piccola moneta, ma mi seduce il pensiero, che dal paese
della mia fragilità, nel farmi accogliere, mando festa in
cielo. E forse anche sulla terra.
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