articoli di d. Angelo


 

CAMMINANDO TRA SIMBOLI

Ora che le chiese si sono fatte più povere di simboli, secondo alcuni defraudate del mistero, gli uomini e le donne più attente del nostro tempo sono alla ricerca di "stenografie dell'anima", così il titolo di un prezioso libro d'arte di P. Costantino Ruggeri.
Alla ricerca di segni, di simboli che, in un mondo di ovvietà dilagante, alludano a qualcosa di "altro", di diverso.
Che le chiese si siano impoverite di segni lo denunciava insistentemente anni fa con amarezza Padre David M. Turoldo: "Posso dire di toccare con mano la povertà spirituale dei nostri tempi; di noi condannati a frequentare chiese sempre meno persuasive: queste nostre attuali chiese che sono spesso dei garage, dove tu a volte ti senti così solo come in nessun altro spazio. Chiese costruite da palazzinari piuttosto che da gente di fede."
Per molti di noi "stenografie dell'anima" simboli dell' "altro" sono stati i ragazzi del Giubileo. Forse per motivi diametralmente opposti da quelli sbandierati da gran parte dei nostri commentatori.

Simbolo sotto i nostri cieli la loro esplosiva gioia, la gioia fatta di poco. O di tanto? Di poco divisibile, di tanto di invisibile. Simbolo, in un mondo di visi raggelati e intristiti.
Molto meno simbolo, a mio avviso segno poco significativo il loro battere le mani: lo spettacolo di platee plaudenti, sedotte dall'idolo di turno, è ricorrente e non allude ad "altro".

Simbolo il loro sacco a pelo dentro una società delle opportunità comode, programmate: ciò che è comodo "conditio sine qua non" per partire.
Meno simbolo forse le loro urla cadenzate, appellate dalle sospensioni della voce, in una società che conosce ampiamente questi trucchi.

Simbolo, simbolo forte, la loro ventata di fraternità, che sembrava mettere in discussione la pesantezza delle nostre barriere nazionali, razziali, sociali, economiche.
Meno simbolo l'assenza nei discorsi quotidiani di ciò che accadeva, spesso di tragico, al di là della piazza, proprio in quei giorni: il mondo era nella piazza, era la piazza il mondo.

Simbolo, la loro sete di spiritualità. "Cerco Dio": diceva qualcuno di loro e la sete, quella di Dio, era negli occhi.
Meno simbolo le loro dichiarazioni enfatiche: "Abbiamo dimostrato agli occhi di tutti che ci siamo, che la Chiesa c'è". Poco simbolo in una società dove legge conosciuta, più che conosciuta, è imporsi e farsi notare.

Simbolo - e vado in controtendenza - non era l'alto numero. L'alto numero non mi ha mai affascinato, mi ha insinuato non pochi sospetti, tanto è ovvio il miraggio, la stupidità del trionfalismo.
Ciò che non ho sentito e che - confesso - avrei voluto sentire da qualcuno dei ragazzi era il riconoscimento, non amaro ma sereno, di essere nel mondo un piccolo gregge.
Tutti i commentatori a celebrare la moltitudine e nessuno a pensare che l'indomani, sparsa sulla terra, ridistribuita in città, villaggi, e parrocchie, la moltitudine sarebbe d'incanto diventata piccolo, molto piccolo gregge. Ognuno si sarebbe ritrovato accanto non la moltitudine, ma alcuni, in verità pochi, compagni di viaggio.
Ora, nel Vangelo c'è un manuale per il piccolo gregge, un manuale forse distante da quello della grande Convocazione, un manuale quotidiano che ha come immagini evangeliche quella del sale che si disperde, ma disperdendosi dà sapore e quella della luce, che illumina senza dirsi, senza parlare.
Posso sbagliarmi, ma mi chiedo: ai giovani per il ritorno nella loro città immagine utile sarebbe stata quella vincente di Torvergata o quella che ci viene proposta dall'Arcivescovo nella lettera di prossima pubblicazione, l'immagine della Madonna del sabato santo? Chi "perde la vita" è vincente.
Come possiamo perdere la vita? E per chi?
Forse sì, è questo ciò che rimane negli occhi, al di là di tutto, se c'è stato un attimo di silenzio, un attimo che è un'eternità, per contemplarla: la croce, una croce nuda.
È tutto. Non perché l'hanno fatta grande, mastodontica - scherzi delle nostre manie di grandezza -. È tutto perché su una croce, non grande, croce comune, quella dei comuni malfattori, Gesù, il Figlio del Dio vivente, ha dato la vita per noi.
Ecco il segno, non altro, anche per la nostra generazione in cerca di stenografie dell'anima.

E da un Giubileo grande, quello della moltitudine, vorrei ora passare, chiedendo perdono per l'accostamento, a un Giubileo più vicino, più silenzioso, quello di una parrocchia come tante.
Qualcuno va dicendo che il Giubileo più vero passa per la porta del cuore. Sono con lui, pienamente con lui. Ogni altro Giubileo, se non passa per la porta segreta del cuore, è scenografia vuota, non è stenografia dell'anima.
Proprio perché ci è stato annunciato un Gesù che sta alla porta e bussa - se gli apri entra e cena con te - non posso non proclamare ad alta voce che ogni volta che uno di noi, come Zaccheo gli apre la casa e restituisce ciò che ha defraudato, è Giubileo, è ritorno della salvezza nella casa.
Vorrei aggiungere che l'atto di passare la porta - proprio perché nel cammino non siamo soli, ma, come ci hanno insegnato i ragazzi del Giubileo, abbiamo compagni di viaggio - può essere vissuto comunitariamente, nel fascino di alcuni simboli, che ancora ardono sorprendentemente in luoghi a noi vicini, luoghi dello spirito, luoghi dell'infinito.

Abbiamo scelto l'Abbazia di Chiaravalle, in un pomeriggio di settembre, il 24 settembre alle ore 15,30.
Che cosa può evocare al cuore un'Abbazia? Quali immagini, quali provocazioni, legate alle pietre? Che cosa rimane negli occhi di chi oggi stupisce davanti alla divina armonia? Forse voci.
Erano le voci che Padre David M. Turoldo ascoltava rapito nel silenzio della sua Abbazia di Sant'Egidio a Sotto il Monte:

Potessimo anche noi in un pomeriggio di settembre rimanere in ascolto delle voci, le voci innervate ormai nelle pietre: pietre e voci insieme. Rimarrà forse un sogno, perché le pietre e il mistero che le abita parlano nel silenzio e il silenzio oggi è merce rara, anche nelle adiacenze di abbazie e conventi.
Nonostante tutto ci auguriamo di ascoltare voci dalle pietre e dagli archi, dal portale e dall'abside, dal tiburio e dal chiostro. E, sottesa ma chiara, la voce di Dio che ci chiama a conversione. Come dice la parola, a "nuovo corso".

La voce ci parlerà negli occhi dal fiammeggiare, alto nel cielo, della torre, la ciribiciaccola, la grande torre costruita nel XIV sec.
Messaggio, quello della torre, che si legge da ogni dove nella pianura circostante, tanto sfiora il cielo
E se Giubileo fosse aprire il cuore a una sapienza che scende dall'alto? Ora che anche i credenti celebrano potenze e furbizie umane, ora che Francesco d'Assisi, Oscar Romero, Teresa di Calcutta escono dai palchi, sostituiti da immagini di ricchezza e di arroganza.
"Donaci, Signore, la Sapienza che scende dal tuo trono".

E dall'ingresso dell'Abbazia poter sostare alla porta e lasciarci avvolgere dalla luce che piove alle spalle dal rosone all'ingresso.
E avvertire con un brivido la voce di Gesù che ancora dice: "Io sono la porta".
Sei porta grande o porta stretta, Signore?
In un monastero non molto lontano, a Viboldone, mi commuoveva la porta stretta, la porta che ti obbliga a farti piccolo, a restringerti, a ridurre l'eccesso dell'io e delle cose, a farti conforme all'immagine di Gesù.
Porta stretta Gesù, ma larga, perché introduce alla vita. Fin da quaggiù. Gli idoli umani sono grandi, ma sono fantasmi vuoti, aprono al nulla. Gli uomini e le donne che passano per Cristo sono al contrario uomini e donne dalle grandi visioni.

Al di là del portale ci accoglierà la nuda navata dell'Abbazia. L'essere nuda, così nuda, col passare degli anni parve quasi insostenibile: si mise mano alla decorazione.
Eppure in quella nudità spoglia, lontana da ogni sfarzo, la centralità, come di diritto, ritornava a Cristo: alla Parola, al Pane, alla preghiera dei monaci, che trovava rifugio oltre il tiburio nei cieli.
E se ritornassimo all'essenziale? "Il Vangelo di Marco" - diceva Arturo Paoli - "è poca cosa, è semplice, si riduce a poche parole, e pensate che il Vangelo di Marco è diventato la radice del catechismo cattolico di oltre settecento pagine".

E parlerà agli occhi e al cuore anche il chiostro, il "quadratum", segno dell'armonia e della perfezione quasi a suggerire che una vita cresce in armonia se ha lo spazio dell'ascolto, lo spazio della vita comune, lo spazio del nutrimento terreno, lo spazio dell'accoglienza: chiesa, sala capitolare, refettorio, foresteria, ai lati del chiostro, a disegnare una vita.

Non so se al nostro pellegrinare nell'Abbazia sarà concesso, sarà dono e grazia, sostare, prima di uscire, nell'abside a contemplare le finestre senza decorazione, volte ad oriente, là dove filtra la prima luce, volte ad oriente, perché di là, da oriente, arriverà un giorno il Signore.
Perché Giubileo è anche ridestare nel cuore nostalgie, una su tutte quella della Sua venuta. E dunque l'attesa. L'attesa che mi è parso di leggere lo scorso anno nell'abside di un monastero a me caro, quello di Bose.


Porto negli occhi
tre esili finestre
sorelle del silenzio
nel grembo di un'abside,
fessure dell'infinito:
spiano nella notte
l'intenerirsi del cielo,
sognano
ad occhi socchiusi
il ritorno del Signore.

don Angelo


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