STORIE
D'ESTATE, STORIE DI BAMBINI
Le
pareti della clinica erano bianche. Anche i miei occhi bianchi.
Come scoloriti, a tratti, da un sussulto di dolore.
Mi capitò in quei giorni di vedere e di non vedere.
E anche a volte di stravedere.
Avvenne per esempio un pomeriggio di luglio per l'emozione
allo sbucare sulla porta della camera di Alberto e Isabella.
Li accompagnava, o meglio loro accompagnavano -l'accompagna-mento
dell'amore!- un bambino, e io, stravedendo, lo presi per
Lidia, la prima loro bambina adottata, quella che, passando
anni fa per la benedizione natalizia nella loro casa, mi
colpì per le sue piccole mani, che sembravano dirigere
un'orchestra: l'orchestra del mondo nelle mani di una bambina.
La gaffe era mastodontica, grande come una casa: non era
Lidia ma Klan-Sang, terra d'origine la Tailandia, da pochi
giorni in Italia.
Ora la piccola Lidia è chiamata a fargli posto nella
casa e nel cuore. Ancora più impegnativa anche se
più entusiasmante, l'orchestra della vita: ora conta
qualche orchestrale in più.
Questa
mia estate è popolata di bambini.
Uno degli ultimi volti, quello sciupato, ferito, di un bambino
del terremoto, rimasto in vita sotto le macerie al di là
delle nostre ore, al di là dei calcoli delle nostre
probabilità.
Che cosa ricorderà un bambino? Forse le mani che
scavano vicino al suo volto come si va a disseppellire un
affresco, forse le ore, le lunghe ore impaurite dall'attesa.
Come riempie un bambino l'attesa? Di quali immagini, di
quali sogni?
E gli altri bambini, quelli che non sentono il rumore trepido
delle mani scavare vicino al loro volto, e non sentono voci,
o forse sono troppo lontane e poi cambiano direzione? Avranno
riposato -mi chiedo- nell'ultimo momento? Avranno alla fine
udito il flauto di un angelo, quello del cielo, ad addolcire
la terra, la nostra, che tiene troppo stretti, ad addolcire
le case, le nostre, costruite di vetro, pur di risparmiare?
E dentro le macerie, nonostante il flauto dell'angelo, accanto
ai volti che hanno respirato la terra, le domande, le nostre
domande cui non possiamo sfuggire, anche la domanda su Dio:
è davvero fedele, non viene meno la sua promessa?
Le case che si aprono ai bambini e le case che precipitano
sui bambini, case che sfarinano come fossero di vetro.
Estate
popolata di volti di bambini, accesa dal volto di Elia,
otto anni: "Perché vuoi il Battesimo?".
"Voglio incominciare un cammino": risponde e gli
occhi sono neri, neri di luce. E nell'aria, che non sembra
più afosa, sospese, trasparenti, le parole di Gesù:
"Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite".
Che vadano a lui. A lui perché è l'unico che
ama senza possedere. Noi, poco o tanto, i bambini -non solo
i bambini- li amiamo, ma possedendoli: li fermiamo, li riconduciamo
ai nostri sentieri.
Estate popolata di volti di bambini. A volte i loro occhi
non sono neri, ma bui. E ti chiedi che cosa sia mai avvenuto
fra noi. È franato -dici- il cielo. Da qualche parte
trema la terra. Da qualche altra cade il cielo.
Gli occhi bui o vuoti, in una disperata assenza, occhi di
bambini, dei ragazzi, che uccidono, che fanno violenza,
che stuprano.
È
cambiato il mondo. In trent'anni è proprio cambiato.
I giornali ci dicono che è uscito negli Stati Uniti
un libro, "Children" (vuol dire bambini, ma anche
figli). È uscito in questi mesi, ma si parla degli
anni sessanta.
"Descrive" -commenta Furio Colombo- "la marea
di giovanissimi che improvvisamente negli anni sessanta
occupavano le strade d'America: pronti a schierarsi, a parlare,
a manifestare, a scrivere, a disegnare, a stampare, a distribuire,
a comunicare. Amore e pace erano le parole chiave".
Scrive sempre Furio Colombo: "Il libro ricorda i ragazzini
che si sono schierati per permettere alla bambina nera di
undici anni di entrare nella scuola segregata di Little
Rock, di trovare il coraggio per attraversare la barriera
di donne bianche decise a impedirlo.
Anche la bambina Ryan Harris ha undici anni, è nera.
È stata uccisa il 10 agosto del 1998. Anche accanto
a lei ci sono due bambini. Sono i suoi assassini. La uccidono
a colpi di pietra per impossessarsi della sua bicicletta.
È stato calcolato che nel mondo in tumulto, oggi,
c'è almeno mezzo milione di bambini armati, usati
come soldati, bambini combattenti e assassini, dalla Cambogia
all' Afghanistan.
Come se fosse in corso un misterioso piano o un'influenza
malefica, bambini uccidono altri bambini (o fanno parte
del progetto omicida) a Ostia, nelle strade di Chicago,
a New York, a Giakarta, a Kabul, nel Ruanda, nei Balcani.
Tutto ciò accade ai nostri giorni, a bambini come
i nostri bambini, appena tre decenni dopo le crociate contro
la segregazione, la violenza, la guerra di cui ci parla
oggi il libro "Children" di David Halberstan".
Perdonate
la lunga citazione, lunga quanto la serie dei bambini che
da neri hanno cambiato i loro occhi in bui.
Nella prosa del giornalista affiora qua e là lo sgomento
e qualche amara constatazione: "Inutile cercare dove
si è frantumato il sogno
Il fatto è
che non abbiamo capito quando, dove si è rovesciata
la vita".
Forse non è così vano, inutile, cercare questo
"dove": "dove si è frantumato il sogno".
Forse non è così fuori delle nostre possibilità
tentare di capire quando e dove si è rovesciata la
vita, quando e dove gli splendidi occhi neri dei bambini
sono diventati occhi bui, sull'orlo della tristezza.
Se rileggessimo la storia alla luce del Vangelo, potremmo
forse intuire che il sogno si è frantumato quando
nella nostra società, fuori e dentro le chiese, si
è voluto sostituire con altro ciò che, secondo
il Vangelo, va posto al centro.
Ricordo, mi rimane negli occhi come fosse oggi, il gesto
di Gesù, uno dei suoi gesti simbolici, con cui segnava,
come facevano i profeti, una direzione, un centro.
Racconta Matteo: In quel momento i discepoli si avvicinarono
a Gesù dicendo: 'Chi dunque è più grande
nel regno del cieli?'. Allora Gesù chiamò
a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse:
'In verità vi dico: se non vi convertirete e non
diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei
cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come
questo bambino, sarà il più grande nel regno
dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini
in nome mio, accoglie me' (Mt 18, 1-5).
Era come se Gesù volesse scuoterci dai luoghi comuni
della grandezza, luoghi comuni che generano incomprensione,
rivalità, sopraffazione, violenze, guerre. Luoghi
comuni che abbiamo ampiamente praticato, dentro e fuori
le chiese, luoghi comuni che nella nostra smemoratezza hanno
segnato non solo gli inizi, ma anche la fine di questo nostro
secolo.
No. Al centro deve ritornare il bambino.
Qualcuno potrebbe obiettare che il bambino non ha mai ricevuto
come oggi tanta attenzione. Ma spesso il bambino, oggi al
centro della nostra attenzione, è un bambino non
più bambino, è un bambino che, non per colpa
sua, porta le pesantezze, la rigidità, a volte l'arroganza
dell' "adulto".
Mettere al centro il bambino. Ma che sia il bambino: "Convertitevi
e diventate come i bambini".
E
non era certo, quello di Gesù, un invito a "diventare
innocenti come i bambini perché il regno dei cieli
non è per gli innocenti, ma per i peccatori, dal
momento che nessuno è esente da colpa" (P. Pezzoli).
Era invece un invito a lasciarci sedurre dal bambino-bambino:
dalla sua innata capacità di sorprendersi, di stupire,
di fantasticare, dal suo incessante interrogarsi e interrogare,
dalla sua leggerezza, lontana da tutto ciò che ingessa
la vita, dalla sua noncuranza per i discorsi astratti, per
i titoli, per le grandezze umane; per lui contano le mani,
conta lo sguardo, gli arriva nel cuore, là dove non
arrivano le parole. Non conta il vestito, non contano le
cose. E se per lui contano è perché lo abbiamo
già contagiato, convertito a nostra immagine e somiglianza.
Per lui non conta il colore della pelle o, se conta, è
perché è diventato "adulto", prima
del tempo, molto prima del tempo.
"Chiunque diventerà piccolo" -'si abbasserà'
dice il testo greco- "sarà il più grande
nel regno dei cieli".
Ora sappiamo quando il sogno si è infranto, quando
e dove si è rovesciata la vita: quando la grandezza
non è più stata cercata nell'abbassarsi, nel
servire, nel prendersi cura del piccolo, ma lungo i sentieri
di una grandezza vuota e incolore, arida ed egoista, quando
all'attenzione al piccolo -lui al centro!- abbiamo sostituito
l'attenzione a chi si esalta e si celebra, quando al piccolo
abbiamo sostituito l'arrampicatore di turno.
Ci siamo illusi e storditi pensando che, più fossimo
saliti in alto, più potere avessimo guadagnato, più
titoli avessimo accumulato, più grandi saremmo diventati.
E ci siamo ritrovati lontani, lontani dal cuore, sui palchi,
senza neanche più accorgerci che parlavamo solo a
noi stessi.
Purtroppo gli occhi dei bambini, occhi sgranati, vedevano.
Purtroppo imparavano. Diventavano "adulti", ma
nel segno della durezza, dell'ingessamento, della ricerca
di se stessi.
Il
sogno infranto può essere ricostruito e la vita può
riprendere il suo corso, se però ci liberiamo dai
falsi centri e ritorniamo a mettere al centro quei piccoli,
che Gesù ha voluto fossero al centro.
In una di queste notti di fine agosto è partito per
il grande viaggio dom Helder Camara, il vescovo brasiliano
degli ultimi, fratello dei poveri, testimone del Vangelo
nel nostro tempo.
Ricordo l'emozione quando, nell'autunno del 1993, qualcuno
di noi lo vide -e già era consumato- attraversare
tra la folla la grande piazza del Duomo.
Più che un corpo, era una tonaca che svolazzava.
Più che camminare, ci sembrava veleggiasse sulla
piazza, uno scricciolo ormai.
Era vescovo, ma gli era rimasto nel volto e nei passi qualcosa
del bambino del Vangelo.
Qualcuno ha ricordato in questi giorni una sua preghiera-poesia,
che è quasi un testamento:
"Strappami, Signore,
dai falsi centri.
Soprattutto impedisci
di porre in me stesso
il mio centro.
Come non possiamo non comprendere,
una volta per tutte,
che, ad eccezione di te,
tutto e tutti
siamo fuori da ogni centro?".
don
Angelo
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