AIUTATEMI
A CAPIRE
Ho letto ancora una volta di Gesù. È sempre
un'emozione leggere di Gesù. Ho letto del suo segno
sul sordomuto.
E ho misurato la distanza. La distanza tra noi e lui. Nel
miracolo infatti c'è una precedenza, una precedenza
disattesa, quanto disattesa nei secoli! Anche nella Chiesa.
Al sordomuto Gesù prima aprì gli orecchi -quasi
volesse dirgli: prima ascolta- poi gli aprì il nodo
della lingua, "e parlava" -è scritto- "corretta
mente" (Mc 7,35).
Solo se hai ascoltato, parli correttamente. Quante parole
scorrette, parole parlate, prima di ascoltare. A volte penso
alla cura che abbiamo nell'insegnare a un bambino a parlare
e la gioia, gioia bellissima che ci prende quando vediamo
un bambino parlare.
Insegnamo a parlare. Ma insegnamo ad ascoltare? C'è
nella case, nelle scuole un insegnamento ad ascoltare? O
è una cattedra sconosciuta?
A volte ho l'impressione -Dio mi perdoni- che anche i nostri
convegni ecclesiali non siano esenti dal pericolo di invertire
la precedenza di Gesù, che siano un parlare prima
di avere ascoltato.
All'inizio dell'estate una suora intelligente e aperta,
mia amica, mi mandò un invito a un convegno, dal
titolo suggestivo: "Verginità e matrimonio:
due parabole dell'unico amore".
La prima reazione -lo confesso- fu quella di rimandare l'invito
all'amica, dicendo che discutessero pure con gli addetti
ai lavori, io preferivo guardare in faccia la mia gente.
Ma sarebbe stato ingeneroso respingere al mittente l'invito.
Mi augurai invece di avere, lungo l'estate, qualche voce
che mi aiutasse a capire che cosa sta capitando nel matrimonio.
Questo articolo è invito ad aprire un dibattito.
Vogliamo, prima di parlare di matrimonio, ascoltare, o lo
riteniamo esercizio troppo faticoso, un inutile perditempo?
Ci interessano i pinnacoli o la soglia umile delle case,
la strada concreta della gente?
Non ringrazierò mai Dio abbastanza di avermi dato
questo osservatorio, feriale, umile, la mia parrocchia.
Non lo venderei per le sedi più prestigiose del mondo.
Dall'umile osservatorio colgo, nelle coppie più giovani,
una gioia forse più intensa di quella di ieri, quando
l'amore era ancora dimezzato e godere con il corpo era cosa
riprovevole o, tutt'al più, sopportata.
Colgo la gioia che nasce dal condividere, una gioia forse
più intensa di quella di ieri, quando importante
nel matrimonio era che ognuno facesse la sua parte, l'uomo
la sua, la donna la sua, separatamente.
Potrei continuare il racconto dei segni positivi, ma la
realtà apre lo sguardo anche su aspetti più
problematici e inquietanti.
Ne percorro tre. Forse non sono i più importanti.
Sono semplici voci dell'estate: gli amici in una valle,
la poesia di Giovanna, un articolo di giornale.
Mi è capitato quest'estate di rivedere con gioia
un gruppo di giovani famiglie. Li incontrai in quota, nella
stessa valle, grande valle, che li vide anni fa ragazzi
e ora li vedeva papà e mamme con i loro bambini.
E, mentre nella grande sala da pranzo, li guardavo con tenerezza
a uno a uno, pensavo quanto lontana dalla realtà
fosse la retorica ossessiva degli anni del seminario, che
mirava a convincerti che la vita del prete, molto più
della vita degli altri, fosse vita dura, di sacrificio.
Guardavo una mamma, un bambino in braccio, l'altro che non
le si toglieva di dosso, il papà occupato con un
terzo. Guardavo in silenzio il loro mangiare a strappi,
a bocconi.
Stesse scene, scene di un matrimonio, alcune settimane dopo
in un'altra valle, tra famiglie con figli in adozione.
Noi preti non abbiamo perso una notte per un bambino che
piange o che è da allattare... e magari qualcuno
di noi si indigna per chi ci suona all'ora di pranzo. Noi
preti sappiamo che cosa avviene a pranzo, a cena, nella
notte, nelle case? Tu quando hai chiuso la porta, l'hai
chiusa. Puoi dormire in pace.
Abbiamo ascoltato nei nostri documenti la fatica delle coppie,
specie quelle più giovani, oggi spesso lasciate sole
a far fronte a una vita apparentemente più comoda
ma alla fin fine più stressante? Soli e con spalle
meno grosse, più deboli forse delle nostre.
E non sarà che qualche matrimonio sia in difficoltà
anche per questa fatica? Ma i volti stanchi -teneramente
stanchi- degli amici non trovano posto nei documenti, nei
convegni. Si parla d'altro.
Altro tema cruciale che andrebbe seriamente esplorato è
il tema della diversità.
Se il primo -la fatica di vivere- mi è rimasto negli
occhi, osservando da vicino un gruppo di amici in montagna,
il secondo -la diversità- mi è rimasto nel
cuore per una poesia di Giovanna, che mi ha accompagnato
lungo l'estate. Poesia dell'estate.
Dopo secoli in cui abbiamo insegnato che l'amore o trova
due già uguali o li rende uguali, stiamo ora imparando
che amare l'altro non è cancellare la diversità,
ma riconoscerla. Come ricchezza invendibile della vita.
Si aprono vie nuove. Ma le vie nuove, come quelle aperte
in parete sui monti, non sono vie di tutto riposo. Non esiste
prontuario che te le insegni.
Forse era tutto più facile, in apparenza più
tranquillo, quando a far sentire la voce nella famiglia
era solo l'uomo. Qualcuno la chiamava pace, qualche volta
era la pace del cimitero, la pace raggiunta cancellando
la diversità dell'altro.
Parete inaccessibile, questa della diversità? O città
proibita?
Noi due, nella vita,
che questa città non sia proibita.
Un pranzo tra amici in montagna. La poesia di Giovanna.
Vorrei aggiungere: un articolo dell'estate.
Un articolo su "Avvenire" dal titolo provocatorio:
"Ti amo, ma non ti sposo". L'articolo chiedeva
attenzione su un fenomeno sempre più diffuso, quello
della convivenza.
Il problema è se parlarne -come spesso si è
fatto- prima di avere ascoltato o, come suggerisce la precedenza
di Gesù, dopo avere ascoltato.
Un modo sbrigativo per chiudere il problema è stato
quello, ampiamente praticato in questi anni, di liquidarlo
attribuendolo alla non volontà di impegnarsi.
Sarà. Ma poi quando a convivere vanno una tua figlia,
un tuo figlio, una tua amica, un tuo amico, e li guardi
non come un caso, ma come una persona, ti prende il dubbio
che forse quel giudizio chiaro, inequivocabile, non dica
tutto. Dirà la cosa più vera di loro?
Xavier Lacroix, teologo francese, padre di famiglia, direttore
dell'Istituto di Scienze della Famiglia a Lione, invita
a guardare più da vicino il fenomeno:
"La situazione non è più quella di trenta
anni fa, quando scegliere la convivenza equivaleva a contestare
il matrimonio. Oggi, per esempio, la maggior parte vive
un certo senso della fedeltà, e la coabitazione non
ha il significato dell'amore libero: ci si augura durata,
più dell'80% delle coppie spera di "tenere",
si concepiscono bambini e i genitori li riconoscono. Inoltre,
senza saperlo, molti fanno il percorso di storici e etnologi,
recuperando e riscoprendo forme antiche di matrimonio in
uso prima del XII secolo, prima che la Chiesa istituzionalizzasse
il rito con lo scambio di consensi.(...) Non è che
chi non si sposa non si impegna: la promessa può
benissimo essere scambiata nell'intimo della coppia ed è
questo l'essenziale. Ma talvolta l'essenziale non basta".
L'articolo di Lacroix in modo inatteso andava confermando
in me pensieri percorsi e ripercorsi in questi anni ascoltando
i ragazzi e le ragazze che ho incontrato sul mio cammino.
La categoria del "disimpegno" non è la
sola e forse non è la decisiva a spiegare il perché
della crescita delle convivenze.
Se rispondiamo prima di aver ascoltato, se non arriviamo
a capire dove sta la causa profonda di questo disagio, non
corriamo forse il rischio di dare risposte sbagliate, o,
se non altro, inadeguate, risposte che non toccano il cuore
del problema?
E se ci aiutassero a capire proprio loro, i ragazzi e le
ragazze che convivono? Se questo foglio, foglio senza pretese,
foglio di una piccola base, diventasse spazio all'ascolto
delle loro voci?
Allora forse potremmo parlare, come dice il Vangelo, "correttamente".
Non sarebbe un dono da poco.
Aiutatemi a capire.
don Angelo
Io
sono il giardino,
a piccole labirintiche aiuole
dove gli arbusti devono crescere contorti
a lievi filamenti intrecciati, e
tu, la grande piazza,
che mi sta davanti.
Io
sono la piazza
grande, libera,
senza spigoli a bloccare la luce
dove lo sguardo deve spaziare sicuro, e
tu, il giardino,
che mi sta dietro
Tu
sei il contorto pensiero
che in ogni sua spira,
come il convolvolo,
crea un getto nuovo, e
dà materia per l'ordine della mia piazza
Tu
sei il pulito discorso,
che in ogni sua frase,
come la musica,
dipana il suono, e
traduce l'eco dai recessi del mio giardino
Io
sono il giardino
e tu la piazza.
Tu
sei il pulito discorso
e io il contorto pensiero.
Io
sono la piazza, il pulito discorso,
tu il giardino, il contorto pensiero.
E
io...
E tu...
E noi...
noi
due, nella vita,
che questa città non sia proibita
Giovanna Bagnasco Gianni
don
Angelo
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