EMOZIONI
DA UNA TERRA
L'aeroporto
di Aleppo in una notte di luna. E le stelle vicine, come
fossero sul punto di parlare. Il primo contatto in terra
di Siria, con la luna e con le stelle. Mai così vicine.
E nel cuore a chiederti se sarà stato un cielo come
questo, stelle così vicine, quelle che avrà
contemplato Abramo, la notte in cui Dio lo portò
fuori della tenda a misurare il cielo, l'immisurabile, con
la promessa per lui di una generazione più numerosa
delle stelle del cielo e delle sabbie della terra.
Dopo le stelle la sabbia. Negli occhi e forse tra i capelli
ancora oggi pulviscoli di sabbia, delle sabbie di Siria,
sabbie sollevate dal vento, sabbie deposte da secoli, città
sommerse dalle sabbie, riemergenti dalle sabbie. E il cielo,
un inimmaginabile cielo. Dappertutto.
Emergenti da sabbie, sabbie di ricordi, oggi anche le emozioni
del nostro cammino in Siria, emozioni che è fatica
svelare.
Saliamo
a Qalaat Samaan, la cittadella di S.Simeone. E' mattino.
Il profumo degli alberi, quasi un introito alla suggestione
della basilica cruciforme di S.Simeone, quattro basiliche
a contemplazione di una colonna, che il tempo ha distrutto
e che senti eretta ancora, invisibile, nell'aria. Ognuno
di noi la va immaginando nel cuore.
Nell'aria che vive, trasparente, tra arco e arco, ti sembra
di percepire una presenza, quella del monaco stravagante
- stravaganza di Dio? - Simeone, che aveva fatto di una
colonna, alta venti metri, la sua dimora.
Suggestione di un secolo, in cui i monaci non si erano esiliati
in deserti lontani, bensì vivevano ai bordi della
città e così la loro vita parlava agli uomini
e alle donne del loro tempo: le chiese affacciate alla colonna.
Oggi noi, piccola chiesa, chiesa tentata di appiattimento,
oltrepassiamo qui archi, contempliamo colonne, absidi, che
ancora narrano - ne hanno intriso la terra - l'anelito a
Dio, qui in ricerca del monaco, che risucchia verso l'alto.
Un respiro ampio.
Volgi le spalle al monastero sul punto di uscire, ma, prima
di abbandonare il tempio, sulla soglia ti rigiri a respirare
ancora per una volta l'incanto degli archi che non chiudono,
finestre sul cielo.E finestra chiama finestra, arco chiama
arco, finestra e archi insieme chiamano il cielo. Senza
fine, l'inimmaginabile cielo di Siria.
Nei
dintorni di Aleppo, alla ricerca delle città morte.
Passando per la regione aspra rocciosa del nord, contempliamo
conche coltivate e distese aride. Il pullman arranca a fatica
su strade scoscese.
Eccoci in vista del villaggio di Qalb Lozeh. E' mattino
di vento e di sole.
All'ingresso del villaggio, da un lato e dall'altro della
strada, una teoria di case modeste, donne vestite di nero
e panni, panni colorati che asciugano al vento.
Siamo attorniati - dolce assedio - da un nugolo di ragazzini:
agitano, irrefrenabili, per invogliarti a comprare, i loro
tessuti con disegni multicolori. Sullo sfondo i resti preziosi
di una basilica bizantina.
E' domenica, decidiamo di celebrare l'Eucaristia all'interno
della chiesa antica, una chiesa che ha per soffitto il cielo.
La messa è indimenticabile. Vani gli sforzi del custode
della basilica di allontanare o far tacere i ragazzini ,
annidati a grappoli alle finestre eleganti dell'abside,
vocianti e curiosi da ogni pertugio: sbandierano, per tutto
il tempo della Messa, nonostante i divieti, i loro tessuti
colorati.
La Messa è breve. Senza omelia. Quasi vivessimo il
rischio di una celebrazione contro il vangelo, il vangelo
della domenica che racconta - coincidenza paradossale -
di Gesù che fa parlare i muti. E noi, in controtendenza,
con il guardiano che si sbraccia a far tacere, a zittire,
coloro che parlano.
Lasciamo - si fa per dire - la chiesa antica: negli occhi
rimangono l'abside e le sue finestre istoriate di bambini
vocianti, sprizzanti vita: succede raramente.
Percorriamo
dal nord al sud la terra di Siria. Percorriamo, affascinati,
secoli, millenni, di storia.
La suggestione, ogni giorno più intensa, è
quella di essere accompagnati in un grande viaggio, il grande
viaggio dell'umanità, viaggio dell'umanità
e della salvezza.
Succede ancora - è cronaca dei nostri giorni - di
circoscrivere i confini della salvezza, quasi che il suo
inizio fosse il cielo notturno di Abramo. Qui visitiamo
i millenni che hanno preceduto quella notte.
Visitiamo Ebla: qui i primi insediamenti, intorno alla bianca
collina calcarea risalgono alla fine del quarto millennio
avanti Cristo.
Le vie misteriose della salvezza! Da disseppellire di sotto
le sabbie del pregiudizio. Così come la missione
italiana va disseppellendo di sotto le sabbie della collina
calcarea vestigia di una acropoli di insospettato interesse,
resti di un palazzo reale, scale elegantissime, tracce di
un archivio cui furono attinte migliaia e migliaia di tavolette
scritte in caratteri cuneiformi.
Ebla, la collina che percorriamo incantati, trattenendo
il peso dei passi, la collina abitata nel grembo, il timore
di pesare sul mistero.
Ebla.
E poi Pamea. E poi Palmira. Palmira nell'ora del tramonto:
capitelli, archi, colonne tinte di rossore al presentimento
del vespero. Palmira nell'ora del tramonto, il brivido del
silenzio che inumidisce le cose, e la luna, la luna che
ti parla sommessamente dal cielo.
Palmira l'indomani, in pieno giorno. Ora misuri fisicamente
il fulgore, l'imponenza, forse l'orgoglio, del tempio, dell'agorà,
della via colonnata.
E nel cuore ti vai chiedendo come tutto ciò possa
essere accaduto, come la città possa essere stata
evocata nel deserto, in un deserto pietroso, per quale sconfinamento
di immaginazione, per quale trasalimento di creatività.
Palmira
ho giocato i miei occhi
a scovare
sotto mensole e capitelli
nomi prestigiosi di condottieri
di re e maggiorenti.
Invano ho cercato
nomi sconosciuti di schiavi.
Nessuna traccia
nessuno che nomini
le braccia tese allo spasimo
le anche divaricate
il sudore
di chi ha innalzato
nel deserto il miracolo.
Cammino in silenzio
per la via colonnata,
oso intitolarla in controtendenza
io pellegrino senza nome
alla fatica dimenticata.
In
controtendenza, nel mio cuore, la visita alla roccaforte
crociata, il Crac del cavalieri. Esempio preclaro di architettura
militare medioevale, in posizione strategica nel territorio.
Mi soffoca la memoria delle armi, degli imprigionamenti,
delle uccisioni benedette col nome di Dio.
Mi soffoca, nel cuore della roccaforte, la cappella nella
penombra.
C'era tutto nella roccaforte. Anche Dio. Un Dio da pregare
prima di uccidere e dopo aver ucciso.
Ho bisogno d'aria. Finalmente respiro sul camminamento più
alto della rocca. Dove guardo lontano.
Ci
avviciniamo a Damasco. Facciamo tappa a Ma' Aloula, piccolo
villaggio arroccato su un'aspra parete rocciosa, a più
di milleseicento metri di altitudine.
Qui gli abitanti ancora parlano l'antica lingua aramaica,
la lingua parlata da Gesù.
Qui anche noi alla ricerca dell'inflessione della sua voce.
Qui a ricordare a noi stessi che Gesù parlava e pregava
nella lingua della gente.
Qui a misurare la distanza - quale distanza! - del nostro
"ecclesialese", il gergo dei documenti ecclesiastici,
lontani purtroppo dai problemi e dal linguaggio degli uomini
e delle donne del nostro tempo.
Damasco.
La grande moschea degli Omayyai. Il fascino intatto del
cortile che fa da introito. La navata nella penombra. La
sorpresa dei pellegrini che bivaccano e dormono dopo il
lungo viaggio.
Dissacrante forse secondo i nostri canoni, ma non dissacrante
forse secondo i canoni di Dio che conosce la stanchezza
dei suoi figli e ha fatto della sua casa la casa degli uomini.
Damasco.
La via retta, la via della conversione di Paolo, la casa
di Anania.
E ancora una volta, mentre celebriamo, a provocarci è
una conversione che non è secondo i nostri canoni,
quelli più ricorrenti. Non una conversione morale:
Paolo era integerrimo nella religione dei Padri.
La conversione, quella decisiva, fu sull' immagine di Dio:
un Dio da imbonire con la nostra perfezione morale? Salvi
per la presunzione delle nostre opere o salvi per grazia,
per misericordia?
La via di Damasco, la via retta, una via ancora da percorrere,
se penso all'immagine di Dio che ancora abita purtroppo
tanta nostra fede, per la quale si è salvi non per
grazia, ma perché i conti tornano, magari con un
giubileo.
Damasco
e il Suq. Un bagno nella folla, nei colori e negli odori
del mercato, nelle voci urlate dei venditori, nell'invenzione
e nel disordine, un disordine che finisce per dar festa
e gioia.
L'aria di festa nel Suq, tra le cose più inimmaginabili.
E gli odori, i colori, indimenticabili. Una atmosfera sorprendente,
non comunicabile, distante anni luce dall'aria gelida dei
nostri supermercati.
Passa anche di qui il volto accogliente di un popolo.
C'è sempre molto da capire di un popolo né
servono le nostre categorie mentali. Ce lo conferma, all'aeroporto
di Damasco, conversando con noi in attesa dell'imbarco,
un funzionario italiano della Fao, da anni ormai a Damasco.
Il confronto è con la sua città di origine,
Roma, invivibile. "Qui" - dice - "esci e
vivi. Poi arriverà anche qui l'industrializzazione.
Allora le cose cambieranno. Ne pagheremo i costi in negativo.
Come da noi".
Possiamo ancora sperare che non sia così?
Ci imbarchiamo, via Aleppo, per Roma. Senza dimenticare.
don
Angelo
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