LUNGO
PISTE DI SABBIA E DI SOLE
Quindici
giorni sono tanti. O sono pochi. Quindici sono i giorni
che fanno la distanza dal pellegrinaggio in Giordania.
Sono pochi per dimenticare. Vivo, a giorni, ancora sulla
pelle quasi un senso di restrizione. Immerso per giorni
e giorni in orizzonti abbagliati di luce, senza recinti
e senza pareti, colori all'infinito, ora sento quasi una
sorta di contenimento: le case sulle case, i cieli ingrigiti
ti pesano addosso, fanno assedio, anche la visione è
spezzata.
Del nostro viaggio in terra giordana non mi riu-scirebbe
di fare una cronaca dettagliata, posso solo ricostruire,
ricordare, raccontare sul filo di appunti indecifrabili,
foglietti strappati, scritture provvisorie e spezzate.
Che fosse un viaggio -un viaggio dello spirito- era un augurio
che ognuno di noi si portava nel cuore. E l'augurio non
ti sembri così scontato: le guide della Giordania,
a differenza di quelle della Palestina, sono sorprendentemente
avare di riferimenti biblici: li scovi a fatica tra pagine
e pagine.
Ma a fugare il dubbio di un appiattimento turistico del
viaggio ecco subito la voce di Abdel, la nostra guida musulmana,
che, dopo le parole di rito, confessa il suo desiderio di
farci ripercorrere, da Aqaba verso il nord, la strada del
grande viaggio, la strada di Mosè. E noi subito ricondotti
col cuore alla storia dei Padri, navigatori insonni di deserti
di sabbia.
Così recita una preghiera del pellegrino -ce la ritroviamo
sulle labbra e interpreta sentimenti profondi del cuore-:
"Signore,
Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe,
Dio di Mosè e del popolo che hai liberato dall'Egitto,
tu sei colui che c'è,
presente nelle vicende e nelle situazioni degli uomini,
sei il Dio vivo e amico che offre liberazione e futuro.
Donaci di ripercorrere con spirito di pellegrini
gli itinerari dell'Esodo.
Aprici gli occhi e il cuore
affinché possiamo accogliere la tua presenza
misteriosa, silenziosa e reale.
Fa' che da questo cammino
risulti rinvigorita in noi la fede
e la convinzione che ciò che è accaduto un
tempo,
accade ancora:
Tu sei sempre con noi;
ci liberi da ogni schiavitù e ci fai camminare,
ci educhi e ci porti a quei traguardi,
che tu solo conosci.
Là ti contempleremo faccia a faccia
e vivremo con te per sempre.
Amen.
La
prima sera in terra giordana offre, quasi preludio, visioni
di monti. Colori ocra e rosa si accendono al di là
della trasparenza dei vetri, sul lontano orizzonte, in una
seduzione che ci accompagnerà l'indomani per le vie
di Petra, città nella roccia.
Percorri secoli a ritroso, percorri millenni. Ti chiedi
come fu possibile a un popolo, per quale sussulto di genio
e di fantasia, disegnare e scavare nel monte una città,
che ora affiora stupenda dalle rocce rosse e rosate:
Petra,
archi
capitelli, colonne
d'alabastro
disegnate nelle rocce
da fantasie incontenibili
di un popolo
o forse plasmate nel sonno
dalle mani di un Dio
con cuore fanciullo.
Petra
le tue rocce calde
ora abitate
dai nostri occhi sgranati.
Camminiamo,
tenendo il respiro, quasi avvertissimo presenze. Percorriamo
le ombre del Siq, tra monti spioventi, abitati da tombe,
da nicchie di divinità. E all'ultima fenditura del
percorso ecco accendersi la visione del Tesoro. All'ingresso
delle città, nei giorni lontani dei Nabatei, al sacerdote
toccava la missione di benedire chi entrava:
Camminare
su sabbie colorate
tra pareti di monti
spioventi
che si cercano
dalla fenditura di fuoco
che li ha squarciati
e divisi.
E sbucando
nella magia di sole
di una piazza
adorare l'infinito
nell'accesa visione
di un tempio,
portale alla città antica
in giorni -oh come lontani!-
in cui un prete agli ingressi
vegliava
a benedire
e non a maledire.
Pietre,
archi, portali raccontano nella roccia la storia di divinità
lontane, custodi della città degli uomini.
Passiamo la soglia di un tempio nabateo. Ora è tempio
a cielo aperto. Qui la volta è disegnata dall'azzurro
del cielo. Tra le rovine una pietra sembra offrirsi come
altare.
L'emozione è intensa. Tra le pietre, dopo secoli
e secoli di assurde scomuniche, è quasi ricongiungimento
di segni e voci nell'unica adorazione. Segni e voci di uomini
e donne da sempre alla ricerca del volto di Dio.
Piccolo, forse ingenuo tentativo, il nostro, di ricucire
sotto quel cielo la frattura, di ricucire e più non
dividere le memorie.
E
non era dissacrazione
di antiche religioni
il nostro celebrare
a cielo aperto
tra le rovine
del tempio nabateo,
su pietra calda
che nuda si offriva
come altare.
Non era forse
ricucire la frattura
di ore desolate
della storia
segnate dal paradosso?
Abbattere,
gli occhi striati di odio,
are e templi
e poi cantare
senza memoria
il Dio oltre i confini,
il rabbi di Nazaret
scopritore insonne
di vestigia di fede
nel paese dei pagani
oltre il confine.
Tra
dune e dune -e non è miraggio- ora qui ora là
la tenda dei beduini. Quasi non fosse scorporabile da questa
terra l'immagine del viaggio. Sotto questi cieli, lungo
queste dune, il viaggio dei quarant'anni, Mosè e
la sua carovana, affaticati ma non arresi.
Leggiamo pagine di questa storia, storia di sete e di ribellioni,
storia di domande al cielo e di rocce percosse, storia di
ammonimenti per i giorni in cui il popolo avrebbe preso
la figura dei sedentari, ammonimenti che suonano più
che mai attuali per uomini e donne come noi, uomini e donne
non più lungo le piste del deserto, ma a fissa dimora
nelle città. Storia di Mosè e del suo popolo,
storia di tende, tutt'uno con questo cielo di basalto, con
questa terra di sabbie infinite.
E dal monte Nebo, punto estremo di un viaggio, monte da
cui Mosè guardava, ma senza possederla, la terra
della promessa, ora tocca a noi l'emozione di fissare la
striscia lontana del Giordano.
Come erano i tuoi occhi, Mosè? Erano per te, quelli,
giorni di benedizione o di maledizione?
Noi, forti di una delle tante tradizioni rabbiniche fiorite
sulla tua morte, osiamo pensare che l'ultimo tuo gesto fosse
di solidarietà con il tuo popolo.
Davanti a te il dilemma posto da Dio: vuoi che prevalga
la tua preghiera: 'Perdona a questo popolo' o vuoi che prevalga
l'altra tua preghiera: 'Fa' che io passi il Giordano'?
"Quando Mosè, nostro Maestro, udì questo,
disse: 'Signore del mondo, perisca Mosè e mille come
lui, ma non si perda un'unghia di uno solo di Israele' ".
Come erano i tuoi occhi, Mosè, il giorno in cui sulla
striscia lontana del Giordano facesti prevalere la striscia
vicina, i volti, scavati dal deserto, del tuo popolo? Forse
nell'atto di scrutare, dal monte, lontano, nascondevi negli
occhi il pianto.
Rossi
di sabbia
i tuoi occhi, Mosè.
Non li spense
li accese
il deserto di vento.
Non indurì il tuo volto
la dura cervice
del tuo popolo.
Condottiero di tribù,
scopritore di piste
ora fissi la striscia
lontana
oltre il Giordano
terra promessa e negata
e la striscia vicina
carovana tenera
e stanca
di uomini
donne, vecchi e bambini.
E tu, condottiero di tribù,
che da dura roccia
chiamasti l'acqua del miracolo
dietro il dorso della mano
ora nascondi
il pianto.
Pietre,
sabbie, rocce, mare. Ma anche, non ultima la magia, l'intensità
di volti.
Nei primi giorni del viaggio il volto di una donna musulmana:
contava le nascite nella casa dal numero delle pance della
nuora. Diede ospitalità a noi cristiani nella sua
vigna lungo la strada: sulla tavola i grappoli dorati della
sua uva, il the alla menta e alla salvia. Dal cuore la fissavamo.
La donna certo non poteva immaginare. Ma per noi era come
dimorare sotto la pergola dell'ecumenismo.
E tu
donna musulmana
coperta d'anni
fasciata di nero.
Tu dal nero
dei tuoi occhi
veri
raccontavi nascite
nella casa
contandole
col numero delle pance.
Cancellando con i tuoi occhi
secoli di separatezze,
grappoli d'uva
offrivi a cristiani
in una vigna giordana
sotto la pergola
dell'ecumenismo.
Sul
finire del viaggio in terra giordana, indimenticabile il
volto di altre donne musulmane presso il museo di Gerasa.
Ancora ci portavamo negli occhi il bagliore di antiche civiltà.
Ce ne venivamo forse un po' appesantiti dalla stanchezza
e dal caldo, puntavamo verso il museo, al limitare delle
mura.
Sui gradini all'ombra della pineta, come fossero in attesa,
avvolte nel loro abito nero, luminosissime, due donne musulmane.
Abdel, la guida, chiese loro se ci fosse un posto al riparo
per la preghiera.
Con il loro sorriso ci accompagnano nell'ombra che dimora
tra i pini, accanto al Museo, e ci indicano una pietra.
Diciamo loro che celebreremo l'Eucarestia per la pace tra
le fedi e le religioni. Ci chiedono di sostare alla nostra
preghiera. A mani giunte, nei loro abiti neri, gli occhi
fissi a un rito che è colmo di mistero.
La pietra è nuda e spoglia. Ma, accanto a loro, ognuno
di noi respira profumi di incenso, sconosciuti agli altari
superaddobbati e ingioiellati di vescovi e papi.
La messa è finita e qualcuno di noi pensa di dire
loro la nostra gratitudine con un'offerta in una busta.
Ma una delle ragazze, quando si accorge che nella busta
c'è del denaro, lo rifiuta dicendo alla guida che
quello è per la nostra chiesa. Ci chiede come dono
il pane, quello della preghiera, lo porterà a casa
come segno sacro di benedizione.
Di lì a poco, nell'atto di congedarsi una delle due
donne confesserà con candore ad Abdel che, poco prima
che noi arrivassimo, una di loro aveva detto all'altra:
"Sento che oggi Dio ci darà un segno".
Il segno si era realizzato: quel pane per loro era sacro.
Le
rovine di Gerasa
accecate di sole
negli occhi.
E nell'aria stupefatta
al limitare delle mura
profumo d'incenso
più che nelle cattedrali
dei Vescovi,
attorno a una mensa
di pietra
segnalata con occhi di segreto
da due musulmane
luminose nell'abito nero.
E nel profumo dei pini
nell'incenso dell'ospitalità
l'accadere delle grandi cose
di Dio,
negate agli altari imponenti
dei Papi:
il mistero di un Dio
che ancora passa il confine
per opera di donne straniere
come un giorno
per sfida tenera
di una donna sirofenicia.
Eucarestia nell'incenso
di occhi
che sgusciano
da veli neri.
Il
racconto del viaggio finisce con l'emozione dell'infinito,
l'infinito delle sabbie, l'infinito del deserto, l'assenza
delle barriere.
È troppo facile, forse ingenua -ce lo ripetiamo-
la poesia sul deserto: Mosè e il suo popolo il deserto
lo sudarono, giorno dopo giorno, sulla loro pelle: una libertà
da pagare.
Sarà un difetto di sognatori impenitenti, ma ci viene
spontaneo pensare che secoli e secoli di progresso forse
non sanno pagare l'emozione del beduino che, all'intenerirsi
del cielo al mattino, apre il velo della sua tenda.
Nulla
pagherà
la tenda di sabbia
dei beduini
all'aprirsi del velo
al mattino
e l'estasi d'alabastro
dei monti
rosa
a picco
su sabbie infinite.
E
viene spontaneo ancora chiedersi se un lembo della libertà
dei beduini non vada oggi riconquistato interiormente, in
una società dove imposizioni e barriere si fanno
sempre più pesanti e ossessive. Che sia il prezzo
dell'insediamento?
Eppure è scritto: "Cristo ci ha liberati perché
restassimo liberi. State dunque saldi e non lasciatevi imporre
di nuovo il giogo della schiavitù" (Gal 5, 1).
E
mi sveglierò
su strade grigie
e griderò inascoltato
l'assenza.
Orfano
della magia del deserto
delle sabbie rosate
delle rocce
ubriache di colore.
E sognerò
folate di vento
di libertà
e sabbia nei capelli,
spazi senza recinti
e l'eco dopo millenni
di messaggi segreti
incisi da beduini
su rocce di basalto
a segnalare
ai nomadi del futuro
piste segrete
d'indipendenza
nell'infuocato deserto.
don
Angelo
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