PARTENZE
VERE E PARTENZE FALSE
Si
riparte con una stanchezza. Forse non è bastata l'estate
a scollarcela totalmente dalla pelle. O forse sono bastati
pochi giorni in città per ridepositarla sui volti,
come un velo leggero ti sporca gli occhi. E siamo subito
stanchi.
Come ritrovare passione quando le giornate sembrano tutte
uguali - puntini neri accanto a puntini neri, in successione
pressoché continua? - E noi, tentati, come l'antico
saggio, di concludere che nulla - proprio nulla - c'è
di nuovo sotto il sole.
E dove il segreto per una partenza diversa? Perché
il partire stanchi - il cuore ce lo dice - è un partire
che sporca di stanchezza le opere e i giorni. Implacabilmente.
LE
DIVERSE PARTENZE
A
stancare indubbiamente sono le cose, le mille cose. Ma a
stancare è ancor più l'affanno patito a rincorrerle.
Quasi dovessimo ogni giorno esibirci, ogni giorno dare di
noi stessi un'immagine più che sfolgorante, essere
sempre e comunque al meglio. Senza cedimenti. Senza debolezze.
Senza lentezze. Sempre al meglio così dalle prime
luci dell'alba.
Eppure, da piccoli, le nostre giornate avevano una partenza
diversa: ci avevano insegnato a partire alle prime luci
dell'alba da Dio. Quella preghiera semplice aveva il calore
e il colore della camera da letto, vera come le lenzuola
dalle quali ti eri appena sfilato. Era come un partire ogni
giorno da Dio.
La lettera dell'Arcivescovo "Ripartiamo da Dio"
dice una cosa nuova, ma forse anche molto antica: è
invito a riconoscere la nostra misura, sfuggendo all'illusione
dell'impresa titanica e all'inevitabile depressione che
ne è il coronamento, Stavamo in ginocchio, quasi
a riconoscere che a noi - così come siamo - Dio viene
in aiuto. "non agli angeli Dio viene in aiuto, ma alla
discendenza di Abramo" (Eb. 2,16).
"E l'uomo, ben prima di essere un peccatore, è
un essere di carne e sangue, un essere dal basso, biologico,
terreno, finito.
E' quest'uomo, segnato dalla morte e dalla malattia, dalla
vecchiaia, dal dolore, dall'ignoranza e dal peccato, che
Dio accompagna nella storia verso la restaurazione di tutte
le cose, verso la pienezza" (Enzo Bianchi, Adamo dove
sei? p. 155).
Accetta la piccolezza: in questa piccolezza - e non chissà
dove - Dio ha deposto il soffio della vita.
L'AVVERBIO
ROVESCIATO
Ripartiamo
da Dio.
Non vorrei - lo dico sorridendo - che qualcuno di noi leggesse,
stravolgendolo, l'invito dell'Arcivescovo, quasi fossimo
invitati a ripartire - a volte così ci si esprime
- "da dio" e cioè "alla grande".
Non una partenza "da dio", ma "da" Dio.
Partire "da" Dio è proprio il contrario
del partire alla grande, "da dio", partire pretendendo
dagli altri, da sé, dalla vita, partire spintonando,
polverizzando.
Non è forse vero che Dio non ha scelto di allargarsi,
ma se mai di restringersi?
Mesi fa su una collina nei pressi di Firenze, moriva tragicamente
Alexander Langer.
Di lui qualche commentatore ricordava l'appassionato invito
a rovesciare nella prassi il ben noto avverbio olimpico:
"citius, altius, fortius. Se vogliamo salvarci.
Non "più veloce, più alto, più
forte", ma l'esatto contrario, il rovesciamento della
prospettiva ci avrebbe - a suo avviso - salvati: "
più lentamente, con più dolcezza, più
in profondità"
Esemplificando forse un po' rozzamente, potremmo anche dire:
"più in fretta, più in alto, con più
forza" è la partenza "da dio"; "più
lentamente, con più dolcezza, più in profondità"
è partire "da" Dio. E c'è una differenza.
UN
TESTIMONE STRAORDINARIO
Nel
cammino dell'anno - scrive l'Arcivescovo - "ci accompagna,
quale testimone straordinario del mistero trascendente,
il Cardinale Ildefonso Schuster, nostro Arcivescovo dal
1929 al 1954, che il Papa proclamerà beato il prossimo
12 maggio.
Alcuni di noi, non più giovani, tra i lontani ricordi,
custodiscono, incancellabile dalla memoria, la sua figura
esile, quasi trasparente, il suo passo affrettato che non
lasciava né spazio né tempo all'esibizione
di sé, i suoi occhi perduti lontano, quasi li abitasse
il desiderio dell'Invisibile.
Nessuna concessione alla scenografia esterna: il primato
era Dio e alla Sacra Liturgia, soglia privilegiata del mistero.
Custodisco, tra i ricordi dell'infanzia, la memoria di una
sua visita pastorale: il sagrato della chiesa affollato,
l'assedio della gente all'Arcivescovo che scende dall'automobile,
il lampeggiare dei flash dei fotografi, i riflessi sul volto.
L'Arcivescovo accenna a qualche passo, come portato dal
vento, e, quasi a distogliere da sé ogni attenzione,
chiama vicino un ragazzino. E subito la domanda: "Se
oggi qui" - dice - "ci fosse un fotografo assai
abile e gli riuscisse di fotografarci dentro, che cosa,
secondo te, rimarrebbe impresso sulla pellicola?".
E quel ragazzo, senza esitare: "L'immagine di Gesù
".
E lui, l'Arcivescovo, a dire che i bambini parlano su suggerimento
delle Spirito.
Un episodio, quasi irrilevante. Ma il gesto dell'Arcivescovo
che, con immediatezza, dirotta l'attenzione dalla sua persona
a Gesù, dall'esteriorità al cuore, dopo anni
non finisce di parlarmi. In perfetta sintonia con l'insegnamento
del Cardinale Martini, che, dopo anni, va limpidamente proponendo
alla sua comunità un primato da custodire: "il
primato di Dio rispetto a ogni iniziativa e attività
umana, il primato di Gesù Cristo sulla Chiesa, quello
della grazia sulla morale, quello della persona sulle strutture,
quello dell'interiorità sul fare esteriore. Il primato
dell'essere sull'avere".
UN
PRIMATO DA CUSTODIRE
Un
primato su cui interrogarci.
E' così vero che Dio ha il primato su ogni nostra
attività? Quanto tempo, quanti pensieri gli dedichiamo
in capo a una giornata?
E' così vero che Gesù, nella nostra prassi
pastorale, ha il primato sulla Chiesa? Quanta esibizione
di sé - dai titoli onorifici alle vesti, dall'enfasi
delle strutture all'enfasi del linguaggio - rimane nella
Chiesa! Quel Cardinale quasi scompariva, ma ad apparire,
in concomitanza allo scomparire, era Gesù.
E, ancora, è poi così vero che nella nostra
Chiesa il primato è alla grazia sulla morale, al
cuore sull'esteriorità?
Mi è rimasta nel cuore la riflessione di un papà
e di una mamma in una delle nostre prime riunioni dell'anno.
Dicevano la loro preoccupazione che alla figlia si parlasse
per un anno del Sacramento della Confessione e se ne parlasse
in termini intimidatori .
Ricordo la risposta bellissima di una nostra catechista
che ai genitori raccontava di un teologo molto famoso della
nostra città che ai ragazzini che si accostano al
confessionale come prima cosa chiede: "
e tu
gli vuoi bene? vuoi bene a Gesù?".
Avrei voluto aggiungere, a non ho osato, che conosco un
parroco, non è un teologo e non è nemmeno
molto famoso, che ai ragazzini e ai non ragazzini che si
accostano al suo confessionale non chiede: "tu gli
vuoi bene?"; dice semplicemente. "sai che Lui
ti vuole bene? Così come sei!".
Lui è convinto che anche quando Gli vogliamo bene,
il nostro è un piccolo, fragile amore e che è
meglio contare sul Suo, che non viene mai meno.
Dire questo, dirlo in ogni occasione
Dire il primato
della grazia sulla morale!
don
Angelo
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