CUSTODI,
NELLA NOTTE, DELLA PROMESSA
Può
sorprenderci. Ed è bene che ci sorprenda. Ci sorprende
anche come chiesa la lettera dell'Arcivescovo, che evoca
la Madonna del Sabato Santo.
Una lettera che è "sosta". Nell'anno del
pellegrinaggio.
Senza la sosta silenziosa di chi ha occhi per contemplare
non si è pellegrini, ma turisti dello spirito, chiesa
del turismo: si ritorna a casa come prima, come si era partiti.
O quasi.
E oggi, a Giubileo inoltrato, non è che non appaia
in tutta la sua evidenza questo pericolo: di un ritorno
senza memoria. Senza la memoria che conta: quella di Gesù.
"Vorrei" - scrive l'Arcivescovo- "che entrassimo
nella grazia del giubileo attraverso la porta del Sabato
Santo".
Lettera,
come sempre, dentro, dentro i giorni, i nostri, quella dell'Arcivescovo.
Dentro il tempo, avvolto dalla benedizione di Dio, nell'anelito
di capirne il senso: "Il senso di quanto abbiamo vissuto
e sofferto, in ascolto di ciò che lo Spirito ci vuol
dire all'inizio del nuovo millennio".
"In ascolto". A volte l'impressione è invece
che i nostri programmi vengano prima. Nascono da altro.
Non dall'ascolto di ciò che lo Spirito dice alle
chiese. Se non altro è un pericolo.
Dentro il tempo. Una visione del tempo quanto mai attuale.
Siamo
al Sabato Santo, il giorno in cui il Seme di Dio, Gesù
di Nazaret, fatto piccolo, ristretto nella morte, come un
granello di senape, è caduto in terra.
È vivo ma non lo si vede. Tutto sembra finito, come
quando, incuranti, si calpestano le zolle dure di un campo,
nel lungo silenzio dell'inverno.
È Sabato Santo la vita, la nostra, che conosce -
è storia quotidiana - le ombre, la stanchezza, gli
smarrimenti, le tragedie.
Ed è costume, purtroppo, rimuovere la dimensione
del limite e declamare. Quante declamazioni - anche in ambito
ecclesiale - che ignorano il Sabato Santo.
Celebriamo, a volte, liturgie coloratissime, dimenticando
che cosa vive intorno a noi per le strade, nelle case, per
la terra, in gran parte di questa nostra terra.
La
lettera si apre con lo "smarrimento" del Sabato
Santo. E sembra pedagogico quest'inizio. Pedagogico non
solo per le "strategie" pastorali della chiesa
ma anche per la strategia più quotidiana della vita.
Anche Gesù, il Risorto, partiva dallo smarrimento
dei discepoli, non lo sottovalutava. Partiva dal volto triste,
dal peso che sfondava il cuore: "Che sono questi discorsi
che state facendo tra voi durante il cammino?" (Lc
24, 17).
Si ha, a volte, l'impressione che si parli - dentro e fuori
le chiese - come se sulle spalle della gente e sul cuore
non ci fosse un peso, o come se il peso della tristezza
nei cuori fosse già un segno della mancanza di fede.
Si parla, a volte, dall'alto, come se la luce del Risorto
non si mescolasse ancora con le nostre ombre:
"Siamo già salvati nella fede e nella speranza"
- scrive l'Arcivescovo - "
ma la nostra condizione
esteriore rimane legata alla sofferenza, alla malattia e
al declino. Il peccato è vinto nella sua forza inesorabile
di distruzione e però continua a coinvolgere innumerevoli
situazioni umane e a riempire la storia di orrori".
Nei
nostri ambienti succede - e non di rado - di sentire raccontare
la nostra società come la società di un dilagante
edonismo e il nostro tempo come il tempo della corsa sfrenata
a cogliere l'attimo fuggente.
Simili analisi, in un primo momento sembrano fotografare
un dato di fatto incontrovertibile. Ma poi subentra un dubbio:
il dubbio che l'indagine rimanga alla superficie del fenomeno
e non riveli il disagio più profondo, il disagio
su cui la lettera del Vescovo tenta di farci riflettere
e chinare, quando, per esempio, parla del "popolo della
notte", dell'inclinazione dei giovani a vivere e a
divertirsi nella notte e invita a leggervi un'inquietudine.
Più frequente in mezzo a noi invece è fotografare
il nostro tempo come un tempo di spensierati e di gaudenti.
Ma, per poco che si sappia alzare il velo e ascoltare il
cuore, il sentimento che affiora è per lo più
quello della paura e della solitudine.
Sorprende dunque la lettera dell'Arcivescovo che, in tempi
di scenografie seducenti, esce dal coro e si piega, come
fanno i veri pastori, sul vissuto da Sabato Santo del gregge.
E senti nelle parole la commozione, quella che prendeva
gli occhi di Gesù, gliela si leggeva negli occhi.
Qui la commozione è nello spazio bianco tra parola
e parola.
Hai incrociato - starei per dire - il mio vissuto, la tela
dei miei giorni. Hai incrociato anche le fatiche, la nostra
fatica di vivere. L'hai incrociata con l'icona della Madonna
del Sabato Santo.
E così siamo richiamati, in tempo di parole declamate
e di esibizioni enfatiche e invadenti, al silenzio.
Anche questo sorprende: che l'icona sia quella della Madonna
del Sabato Santo di cui non è traccia nel Vangelo,
una Madonna che parla con il silenzio, ora che troppi vogliono
stemperarne l'immagine in una Madonna che parla a ogni piè
sospinto, un fiume di parole.
Può apparire, a prima vista una forzatura, dolce
forzatura, quella del Vescovo che fa parlare la Madonna
del Sabato Santo, la Madonna del silenzio, quasi andasse
a violarne il silenzio.
Ma se ti inoltri nel dialogo sommesso tra il Vescovo e Maria,
non puoi non notare - e non è, a mio avviso, marginale
- che la Madonna, in un certo senso, non parla, fa parlare
un altro, non inventa parole sue, dice quelle di un altro,
di quel suo Figlio.
E non era stata, dopo tutto, questa l'indicazione ai discepoli
in Cana di Galilea: "Fate quello che vi dirà"?
(Gv 2, 5).
La Madonna del Sabato Santo è una donna dalla memoria
forte. Ricorda a se stessa, al Vescovo e a noi, tre parole
di Gesù, parole per il Sabato Santo dell'umanità:
"Se avrete fede pari a un granello di senapa
"
(Mt. 17, 20),
"Colla vostra perseveranza salverete le vostre anime
"
Lc. 21, 19),
"Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane
solo, se invece muore produce molto frutto" (Gv. 12,
24).
Tre parole per gli uomini e le donne del Sabato Santo.
Le
tre parole di Gesù, ora in bocca a Maria, risuonano
come un vademecum, parole per il viaggio, da custodire nel
cuore.
La parola tocca la mente ed è invito ad allargare
la visione. Ci perdiamo nel frammento. Ci svuotiamo nelle
operazioni di corto respiro, ci svendiamo per l'incapacità
di evocare alla mente il futuro di Dio.
La parola tocca il cuore ed è invito a resistere
nell'attesa.
Il "tutto subito" ha contagiato anche il mondo
ecclesiastico. Si celebrano nascite senza gestazione e sono
nascite spurie. Si pretendono raccolti senza mettere in
conto i solchi dell'invisibilità e del silenzio,
senza la pazienza del contadino del Vangelo.
La pretesa ha preso il posto dell'attesa. E la pretesa è
il rifiuto del Sabato Santo.
La parola tocca la vita, è consolazione per la vita.
Maria ci ridice la piccola parabola del seme, che, caduto
in terra, non muore, ma produce molto frutto. Ci invita
a resistere anche nei giorni dell'invisibilità, a
resistere secondo la logica del Vangelo, del perdersi nella
terra, del dare la vita.
In una stagione della chiesa in cui, sia pur timidamente,
va affiorando la consapevolezza di essere diventati piccolo
gregge, la reazione potrebbe essere non quella evangelica,
ma quella mondana. Qualche segnale - mi sembra di capire
- è nell'aria.
Ne è segno una certa nostalgia del passato, segno
della nostra incapacità a leggere i passaggi di Dio,
la sua presenza oggi nel sabato del mondo:
La nostalgia del passato può indurci a rimpiangere
i tempi in cui la chiesa contava e può aprire, purtroppo,
la corsa alla pretesa di garantire la nostra sopravvivenza
con riconoscimenti umani e appoggi terreni.
Ma su queste strade perderemmo ancora una volta il tempo
favorevole, l'occasione di grazia che ci è donata:
quella di testimoniare nel tempo della notte, nella notte
del tempo, che l'unica nostra forza è Dio. Testimoniarlo
non venendo meno, ma, come Maria, rimanendo in piedi.
I nostri volti tesi, la nostra voce concitata, la nostra
insofferenza per i cammini diversi, per i tempi diversi,
le nostre programmazioni rigide vanno nella direzione opposta
a quella della attesa paziente di Maria.
Dicono che al centro, a fondamento, non sta la promessa
di Dio, ma il calcolo umano.
Sono altri i volti che testimoniano la fede nella promessa:
"Si tratta - scrive l'Arcivescovo - di irradiare attorno
a noi, con gli atti semplici della vita quotidiana - senza
forzature -, la gioia interiore e la pace, frutti della
consolazione dello Spirito".
E,
ancora, l'icona della Madonna del Sabato Santo potrà
dare speranza a chi oggi guarda con aria preoccupata alle
lacerazioni che si sono prodotte nel tessuto connettivo
della vita e, di conseguenza, all'esperienza della solitudine
che l'uomo e la donna di oggi stanno patendo nei più
diversi ambiti.
La Madonna del Sabato Santo ci parla da una memoria che
non rimane tale, ma diventa, in chi la custodisce, segreto
di comunione: Maria "sta coi discepoli, li conforta,
li rimette insieme, li incoraggia facendo loro gustare i
frutti della "consolazione della vita"
è
elemento di coesione, testimone di compassionevole amore
e di prossimità operosa".
La lettera del Vescovo va a riproporre quindi un'immagine
mite e inerme, quella di Maria, come la vera forza che può
riaggregare ciò che è stato scomposto dall'io
arrogante, assoluto, prevaricatore, dall'io ubriaco di se
stesso, dall'io preoccupato del particulare, dall'io incapace
di perdono e di compassione.
La
lettera sembra quasi segnare una sfida: la sfida del ritornare
a credere che vittoria è la nostra nuda fede, che
la forza è nella nostra debolezza: "La mia potenza
infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2
Cor. 12, 9).
Non la declamazione dunque ma il silenzio, non la pretesa
ma l'attesa, non gli appoggi umani ma la promessa di Dio.
don
Angelo
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