UN
PADRE DA UCCIDERE?
Le
immagini che vengono da lontano, dai giorni incantati della
fanciullezza, ci hanno profondamente segnato, più
di quanto noi stessi a volte sospettiamo.
Mi chiedo per esempio -e non so darmi una ragione- perché
nell'immaginario religioso che viene da lontano il nome
di Padre, di Dio Padre, evochi per lo più la figura
dell'Antico dei giorni, una barba fluente, un trono: il
Padre seduto sul trono.
Eppure l'esperienza del trono di Dio, di un Dio sul trono
per ora non ci appartiene, sarà nel futuro: quel
futuro che sfugge alla nostra percezione. E poi quale trono?
Hanno troppo sbrigativamente messo il Padre in trono e forse
non hanno pensato che quel trono prima o poi avrebbe creato
distanza tra il Padre e i figli e a uscirne ferita, scolorita,
inaridita sarebbe stata proprio la paternità.
È
successo anche per la preghiera liturgica, là dove
alla parola "padre", riferita a Dio, ritenuta
forse troppo rivoluzionaria, subito si aggiunsero, quasi
a contenerla, gli aggettivi "onnipotente" e "eterno":
Padre onnipotente ed eterno. Quasi dovessero gli aggettivi
fare da guardia, piantonare l'immagine di paternità:
che non succeda che se ne vada disinvolta, sbrigliata, in
libera uscita! E così la mente, più che sul
nome "Padre" riposa sugli aggettivi che diventano
dominanti: onnipotente, eterno.
Lungi da me l'intento ingenuo di distruggere troni o cancellare
aggettivi, che assolvono per altro il compito importante
di salvaguardare l'irriducibile distanza tra noi e il mistero,
un mistero che sempre ci trascende.
Il problema, se mai, è chiarire a noi stessi se troni
e aggettivi non abbiano sfuocato o cancellato l'immagine
stessa di paternità.
Mi chiedo perché, accanto all'immagine di un Padre
in trono, abbia trovato così poco spazio nell'iconografia
cristiana l'immagine del Padre misericordioso, il Padre
che abbraccia il figlio minore che per un sussulto di indipendenza
se n'era andato di casa.
Mi
chiedo anche perché la parabola del Vangelo di Luca,
che parla di un padre e di due figli, sia diventata la parabola
di un figlio solo, il minore, per lo più registrata
nella memoria come "la parabola del figliol prodigo".
Nella sua ultima lettera pastorale "Il ritorno al Padre
di tutti" il nostro Arcivescovo ha dato un nuovo titolo
alla parabola, chiamandola "la parabola del padre misericordioso".
I titoli, i sottotitoli non appartengono al testo biblico,
variano da Bibbia a Bibbia, li inventiamo noi e come tutte
le cose che inventiamo noi sono più o meno puntuali,
più o meno illuminati, possono accendere o anche
nascondere.
Il titolo "Figliol prodigo" mette l'accento sulle
nostre fughe e sulle nostre capacità di sperperare.
Ma questa non è "buona notizia". "Buona
notizia" è il padre che sorprende, sì,
fa scandalo con la sua esagerata misericordia.
Dopotutto quel figlio non era nemmeno il prototipo dei più
puri tra i convertiti: alla casa, alla casa paterna, tornava
-confessiamolo- un po' anche per fame, costretto com'era
a rubare ghiande ai porci.
In primo piano nella parabola non è la fuga ma l'emozione
di un padre che vede da lontano, che corre incontro, si
getta al collo, bacia il figlio, fa portare il vestito più
bello, l'anello e i calzari, fa uccidere il vitello grasso,
organizza la festa, musica e danze.
In primo piano non è lo spreco del figlio che ha
scialacquato un patrimonio con le prostitute, ma lo spreco
del padre, lo spreco della misericordia, quell'esagerazione
di festa: parabola del "padre prodigo".
Ma
forse anche per un altro motivo il titolo "figliol
prodigo" non era dei più indovinati o forse
anche scorretto: perché spezzava la parabola. La
concludeva con il ritorno di un figlio. Usciva di scena
il figlio maggiore, che era quello per il quale Gesù
aveva raccontato la parabola.
La parabola era nata sull'onda dello scandalo dato dal comportamento
altamente trasgressivo di Gesù: accoglieva pubblicani
e peccatori, mangiava con loro, era uno scandalo.
E lui racconta la parabola. Come a dire: siete della razza
del figlio maggiore, il figlio che contesta la misericordia
e si rifiuta di entrare alla festa.
Era rimasto, quel figlio, una vita con il padre e non era
stato sfiorato dal mistero più profondo.
Nel suo cuore aveva ristretto la figura del padre nella
figura di un "padrone", aveva abbassato l'amore
del padre al livello arido delle prestazioni: ti amo in
base alle prestazioni, se lavori tanto ti amo tanto, se
lavori meno ti amo meno, se non lavori non ti amo. Un amore
secondo i meriti.
La parabola, scritta in modo particolare per il figlio maggiore,
nella nostra predicazione è stata per lo più
spezzata: il commento finiva al ritorno del "prodigo".
E per lo più il tono era come di chi dice: "hai
messo finalmente la testa a posto". Il figlio minore
ha sì messo la testa in un "posto" fino
ad allora a lui sconosciuto, il luogo della misericordia
del padre. È il figlio maggiore che fatica, fatica
e resiste a mettere la testa a posto: nel "posto"
della misericordia.
La
parabola è scritta per coloro che si scandalizzano
della misericordia. Dove siamo noi oggi? La comunità
ecclesiale, per come oggi appare, scandalizza, come Gesù,
per la sua accoglienza a 360 gradi? È sbilanciata
come Gesù all'esterno, su quelli che comunemente
sono considerati "fuori" o non ha l'aria supponente,
così dura a morire, del fratello maggiore, quello
che guarda in casa e non fuori, quello che sa chi è
in comunione con Dio e chi non lo è, quello che è
fermo alle prestazioni: a tanto tanto, a meno meno, quello
che mette i puntini sugli 'i' e i paletti, quello che conosce
tutto della casa, conosce tutti gli angoli della vita ecclesiale,
parla come un curiale, ma non ha ancora scoperto l'angolo
misterioso, il decisivo, l'angolo della misericordia.
Mi
sono rimaste nel cuore le parole di Tina, una vita, cinquant'anni,
passata con i ragazzi più problematici, con le loro
famiglie, quasi una parabola vivente dello scandalo dell'accoglienza,
lo scandalo di Gesù, morta di cancro, qualche settimana
fa.
L'ultima volta che la vidi mi confidò: "Sai,
don Angelo, sono giorni che con il mio corpo non so trovare
un posto su cui riposare, mi giro e mi rigiro. Ma dentro
ora ho trovato la pace, ho trovato un posto su cui riposare.
Il mio posto, su cui riposo, è la misericordia di
Dio".
Chi non ha conosciuto questo posto non ha conosciuto il
Vangelo. Parla come il figlio maggiore.
Leggendo
la parabola, ti rimane allora un sospetto: che proprio la
fuga da casa sia l'occasione, l'occasione di grazia, per
conoscere quello che ancora non avevi conosciuto, il volto
vero di tuo padre.
Fuggire, uccidere il padre per ritrovarlo?
Questo nostro tempo viene spesso raccontato da coloro che
ne indagano le tendenze come il tempo dell' "uccisione
del padre".
Padre da onorare o padre da uccidere?
Il padre con la sua paternità ti ricorda che la vita
ti è stata data, viene da lontano, non ti sei fatto
tu con le tue mani, il mondo non inizia oggi e sarebbe ingenua
stoltezza ricominciare ogni giorno come se nessuno avesse
pensato prima di te, amato prima di te, costruito e distrutto
prima di te: prima di te il diluvio! In questo il padre
è il simbolo di una vita da onorare.
Ma se c'è un'immagine di padre da salvaguardare,
forse c'è anche un'immagine di padre da uccidere,
il padre despota, il padre da cui liberarsi.
Dio Padre -scrive il Card. Martini- "non fa concorrenza
all'uomo, alla sua libertà, al suo progetto emancipatorio.
Il padre despota da cui liberarsi è un'immagine che
spesso è stata trasferita su Dio: essa va giustamente
rifiutata... Occorre ritornare al Padre che ci fa liberi
e richiama a libertà, a quella figura che ci provoca
a essere noi stessi, a costruire con responsabilità
il nostro avvenire e che lo edifica con noi" (Ritorno
al Padre di tutti, pag. 26).
Forse
è venuto il tempo di chiederci non solo se oggi diciamo
Dio, ma quale Dio oggi diciamo: il Dio della parabola o
un altro Dio?
Forse è venuto il tempo di chiederci quale immagine
di Dio traspaia dalla nostra vita: l'immagine del Dio despota
-credenti allineati, bastonati, dentro i confini di casa,
pilotati- o l'immagine di un Dio che libera -credenti appassionati,
"fuori misura", fuori programma, capaci di scandalizzare
come scandalizzava Gesù-.
Tu per che cosa scandalizzi? Per la tua durezza o per la
tua accoglienza?
Se
non arrivi in fondo alla parabola, anche il ritorno a casa
potrebbe essere equivocato come il ritorno al dovere senza
fantasia, un ritorno nei ranghi.
Con l'immagine del ritorno -il ritorno al padre di tutti-
il Card. Martini non vuole di certo suggerire il ritorno
alla minorità, alla regressione infantile.
L'invito è invece a rifarci pellegrini. Pellegrino,
icona dell'uomo e della donna in cammino, nel segno di un'ininterrotta
scoperta. Di qui l'emozione dei due verbi del figlio minore:
"alzarsi" e "andare". Finché
durano i verbi dura l'emozione.
I due verbi, nel commento del Cardinale diventano parole
da leggere e rileggere, di tanto in tanto lungo il cammino:
"Alzarsi, andare vuol dire non lasciarsi prendere dalla
nostalgia di un passato esistente solo nella nostra mente,
né dalla seduzione di un presente in cui restar fermi
nelle nostre piccole sicurezze o nel lamento sui nostri
fallimenti.
Alzarsi, andare vuol dire accettare di essere sempre in
ricerca, in ascolto dell'Altro, protesi verso l'incontro
che ci sorprende e ci cambia, desiderosi finalmente di "obbedire",
in maniera adulta.
Alzarsi, andare vuol dire ricominciare a vivere di speranze,
nella speranza, "siamo dei poveri mendicanti, qusta
è la verità": la frase -attribuita a
Lutero morente- è non solo la confessione onesta
del limite sperimentato, ma anche la dichiarazione di un
progetto di vita che cerca fuori di sè, nell'Altro,
nel Padre-Madre, nell'amore il senso della vita e della
storia" (pag. 289.
don
Angelo
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