E
SE SCOPERCHIASSIMO LE CHIESE ?
Attraversa
d'un fiato la chiesa, viene a stringerti la mano, gli occhi
lucidi come se venissero da una lunga emozione, non è
uno degli "addetti ai lavori", fatica a contenere
le parole. Ti dice: "Questa è una parrocchia,
non quella delle quattro beghine che biascicano preghiere
al mattino
".
L'emozione -succede- ti fa dire talvolta qualche parola
di troppo. Da parte mia incomincio ad amare anche le preghiere
biascicate, quelle dei piccoli, quelle logorate dall'abitudine,
ma forse -chi lo sa?- non totalmente vuote di cuore.
Ma al di là della battuta polemica, gli occhi -non
è chi non lo veda- tradiscono un'emozione. L'emozione
è in tutti, è ancora nell'aria, non si è
ancora spenta, pur se si sono spente nella chiesa le ultime
note del concerto della corale di Caglio.
Piccolo paese, Caglio, della Brianza, trecento o poco più
abitanti
e una corale che ha fatto fremere -mi si
perdoni il verbo- i vetri alti della chiesa, ma soprattutto
il cuore.
Mi si accende dentro d'istinto la parabola del Vangelo:
il piccolo seme, diventato grande albero
e noi questa
sera, al riparo delle sue fronde, affascinati dalla bellezza.
Incrocio, per un bisogno di complicità, gli occhi
di Alberto, lui, l'anima di questa emozionante serata. Incrocio
il paradosso: il paradosso di come possano convivere stanchezza
ed emozione. Viene da chiedersi come possa abitare tanta
luce in un volto scavato e provato dalla stanchezza.
È notte. Salgo le scale ed è incrocio, nel
cuore, dell'eco dei canti, dell'arpa, del flauto e, insieme,
dell'eco delle parole: "questa è la parrocchia
".
E cerco di capire.
Che
volesse dire che bisogna parlare di Dio con la bellezza
e non con immagini deprimenti?
E che sia questa una delle possibilità date, l'ultima
occasione da non perdere, nella linea della suggestione
evocata mesi fa dal nostro Arcivescovo con le parole dello
scrittore russo Solgenitsin?
"Il mondo moderno essendogli franato contro il grande
albero dell'essere, ha spezzato il ramo del vero e il ramo
della bontà. Solo rimane il ramo della bellezza.
Ed è questo ramo che ora dovrà assumere tutta
la forza della linfa e del tronco".
Una chiesa dunque che dica Dio nel linguaggio della bellezza?
"Questa
è la parrocchia, questa è la chiesa
".
A suggerire le parole -cerco di capire- è forse anche
il desiderio di una chiesa che tenti vie inedite e dunque
un invito a immaginare percorsi che vanno oltre. Fuori,
lontano dalla presunzione che esista un modo solo, un solo
linguaggio per dire Dio, per raccontare Gesù agli
uomini e alle donne del nostro tempo. Fuori, lontano da
un certo soffocamento.
E
se scoperchiassimo le chiese?
È la domanda che mi rimormora dentro da un po' di
tempo a questa parte, dalla domenica in cui nel vangelo
di Marco ci fu raccontato di quegli anonimi, fantasiosi,
portatori di un anonimo silenzioso paralitico, loro che,
vista la folla che faceva ressa e barriera intorno a Gesù,
ebbero la geniale idea di scoperchiare il tetto della casa
e di calargli dall'alto il paralitico, proprio nel punto
dove si trovava.
Le folle osannanti nel Vangelo -lo vogliamo capire o no-
finiscono spesso per fare da barriera intorno a Gesù.
E, allora, beato chi sa arrampicarsi su un albero come Zaccheo,
o chi sguscia tra la folla fino a toccare il mantello di
Gesù come l'emorroissa del Vangelo. Beati, ancora,
quelli che sanno scoperchiare una casa!
Ci
insegue purtroppo da secoli, senza mai demordere, il modello
di una chiesa dalle porte presidiate, il cui scopo sembra
quello di ricondurre tutto al suo interno, dentro i suoi
insegnamenti, dentro le sue norme, dentro le sue istituzioni.
Una chiesa che pensa di vincere con la sua forza, con l'imponenza
dei suoi riti, con la solennità delle vesti, con
i titoli ecclesiastici, con la pretesa della verità
circoscritta, chiesa dell'imposizione.
Il modello finisce per chiudere porte, per alzare mura.
Né possiamo lasciarci trarre in inganno dalle porte
aperte. Spesso rispondono a un bisogno d'apparire chiesa
dal volto più umano. Il muro è dentro di noi.
È un dramma, un vero dramma, che uomini e donne del
nostro tempo, giunti, nel vagare della loro ricerca, alla
soglia delle nostre chiese, si imbattano nel muro della
nostra sordità, e non nella figura del Gesù,
umile, servo, dei Vangeli.
C'è
da augurarsi che un simile modello non scoraggi i "portatori"
del nostro tempo, non disarmi la loro fantasia e la loro
creatività. C'è da augurarsi con tutto il
cuore che il loro coraggio di scoperchiatori sia più
forte del tetto duro delle nostre presunzioni.
Qualcuno -lo si può immaginare- griderà al
disagio all'atto dello scoprimento del tetto, ma converrà
ricordare a noi stessi che Gesù, contro tutte le
disquisizioni teologiche, chiamerà "fede"
l'atto degli scopritori del tetto: "vedendo" -è
scritto- "la loro fede" (Mc 2, 5).
Non è difficile immaginare, a queste parole, la reazione
degli uomini della ortodossia teologica, piccoli o grandi
inquisitori di ogni tempo. Loro avrebbero "giustamente"
più di un motivo per mettere in dubbio la purezza
del gesto dei portatori, per arricciare il naso, per dire
che no, quella non è fede, è un atto di semplice
filantropia, pura solidarietà umana, e che la carità
è ben altro, ben altro la fede!
Gesù al contrario legge la fede, proprio dentro la
fatica dei portatori del paralitico, dentro la loro fantasia,
dentro la loro immaginazione, dentro la loro sfida.
Questa dovrebbe essere la parrocchia, questa la chiesa:
lo spazio di chi, fedele al suo Signore, sa leggere la fede
là dove gli "inquisitori" non la sanno
leggere, hanno occhi e non vedono!
"Questa
è la parrocchia, questa la chiesa
". Le
parole del dopoconcerto andavano forse anche a evocare nel
desiderio uno spazio di festa: non i mugugni ecclesiastici,
ma la festa, la festa dell'accoglienza.
Anche sotto questo profilo la figura di Gesù -dobbiamo
ammetterlo- è dirompente: "Perché il
vostro Maestro mangia con i pubblicani e i peccatori?"
(Mc 2, 16).
Ma come? Un Rabbì, un maestro dello spirito non deve
forse avere il taglio asciutto e severo dell'asceta, del
digiunatore?
L'uomo di Dio, gli uomini di Dio nel nostro immaginario
sono quelli che digiunano e non quelli che mangiano.
Come se ci fosse un sospetto. Come se la religione fosse
da abbinare sempre e comunque esclusivamente al digiuno
e non alle feste, ai volti rabbuiati e non ai volti sorridenti,
alle prediche e non alla convivialità umana.
Come se il Regno di Dio passasse esclusivamente attraverso
i digiuni, le veglie, le liturgie, e non anche attraverso
la tavola, i banchetti, il far festa.
E
poi
gli uomini dell'istituzione avrebbero preteso
qualcosa di più: che il Rabbì di Nazaret avesse
posto almeno qualche condizione prima di mettersi a tavola
con i pubblicani e i peccatori. Invece no, non aveva preteso
niente né una preghiera né un segno di ravvedimento.
Per lui stare a tavola con pubblicani e peccatori era già
un'omelia, una grande omelia, un grande racconto su Dio.
Forse
è l'omelia che manca nelle nostre chiese, dove le
omelie -riconosciamolo- si sprecano.
Eppure -si voglia capire o no- questa era la novità-scandalo
del Rabbì di Nazaret, l'aria nuova che si respirava
al suo banchetto: la sorpresa della gratuità, la
sorpresa di essere amati e accolti, comunque.
E come non sognare, spinti dalle parole del dopocorcerto:
"questa è la parrocchia, questa la chiesa
"?
Come non sognare una comunità -voglia Dio che sia
la nostra- dove si respiri un'aria nuova, un'aria di festa
aperta, un'aria di corteggiamento e di seduzione verso coloro
che sono considerati anche oggi "lontani", "fuori",
"non regolari", l'aria nuova che si respirava
al banchetto di Gesù con i pubblicani e i peccatori,
la sorpresa di essere accolti e amati, comunque?
E che il nostro stare a tavola, stare a tavola con tutti,
sia già omelia. La nostra vera grande omelia.
don
Angelo
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