O
VOI, CHE PASSATE PER STRADA
Non
ho visto preti e suore danzare a "Furore". Se
n'è fatto un gran parlare. Forse sono presuntuoso,
ma penso che non me ne sarebbe importato più di tanto.
Se loro ci trovano un motivo per farlo, facciano pure. Non
perdo tempo a discuterne.
Vedo e vado oltre. Sono altre le immagini che durano nella
mente e nel cuore.
Ho visto e mi sono fermato. Di fronte a ciò che vedevo,
di colpo mi hanno attraversato, mente e cuore, le parole
di un antico responsorio del Venerdì santo.
Mi hanno attraversato, così come suonano, in latino,
e la melodia era quella, da brivido, di un compositore forse
del seicento, di cui non saprei dire il nome: "O vos
omnes qui transitis per viam" - canta il responsorio
- "attendite et videte si est dolor similis sicut dolor
meus". "O voi tutti che passate per strada fermatevi
e vedete se c'è un dolore simile al mio".
Il responsorio mette le parole sulla bocca di Maria: "Si
sono fatti oscuri dal lungo piangere i miei occhi
".
Sono
passato come tanti altri e mi sono fermato: erano immagini
dal Sudan, un servizio dalle missioni comboniane del Sudan.
Immagini che mi porterò, pane quotidiano, per tutta
la Quaresima, come fossero incollate agli occhi. Le abbiamo
contemplate in una di queste sere un po' tutti e ci hanno
scavato fino alle ossa.
Ho visto una donna, non ne conosco il nome, l'ho chiamata
Agar. Se ne andava per deserti con i piccoli figli a inseguire
cibo, costretta a lasciarne uno, che più non reggeva
alla fatica e alla fame, per salvare l'altro.
Sorella, la donna, dell'altra Agar, la schiava che ad Abramo
aveva dato un figlio. Cacciata di casa per una storia di
gelosie, cacciata con qualche pane e un otre di acqua sulle
spalle: "se ne andò" -dice la Bibbia- "e
si smarrì per il deserto di Bersabea. Tutta l'acqua
dell'otre era venuta a mancare. Allora essa depose il fanciullo
sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte, alla
distanza di un tiro d'arco, perché diceva: Non voglio
vedere morire il fanciullo" (Gen. 21, 14-16).
Storie
di donne e di bambini nei deserti della storia, mille ottocento
anni prima di Cristo, duemila anni dopo Cristo, storie di
sempre, storie che si assomigliano in modo impressionante,
quasi un calco. Straziante, disumano calco dopo tremila
ottocento anni.
E la moderna Agar ritorna sui suoi passi e grida il nome
del figlio, lo grida al cielo e alla terra. E non c'è
risposta.
Sono passato con voi per questi fotogrammi di un servizio
sul Sudan e mi sono fermato. Erano madonne con macchie oscure
sugli occhi, oscure per il pianto.
E ho tremato. Ho tremato davanti a quell'affollarsi di bambini,
devastati dalla fame, anime senza più corpi.
Ho visto anch'io con voi, una morte in diretta, nei deserti
della storia, agonie di bambini: non li potevi difendere
dalla morte. Ultimo possibile atto di pietà difenderli
dalle mosche che li assalgono nell'ultima ora. E le mani,
sì le nostre mani, incapaci di difenderli dall'infierire
assurdo delle mosche sui loro corpi.
Sono passato e mi sono fermato. Ho visto la morte in diretta
di un bambino. Non ne ricordo il nome, non aveva un solo
nome, aveva centinaia di migliaia di nomi. Gli portavano
finalmente una brodaglia bianca da succhiare. Era ancora
vivo, ma le labbra rifiutavano. Come quelle del Signore
sulla croce: "Gli davano" -è scritto- "vino
aromatizzato con mirra, ma egli non ne prese" (Mc.
15, 23).
Si lasciò morire il bambino. Come il Signore sulla
croce, in un cielo che sembrava confessare la sua impotenza.
Gli occhi della madre come gli occhi di Agar nel deserto.
È una bestemmia dire: come gli occhi del Padre, che
vedeva morire il Figlio sulla croce?
"O voi che passate per strada, fermatevi e vedete se
c'è un dolore simile al mio?".
Starei per dirti di sì, Maria di Nazaret, e non so
se le mie parole sono bestemmia. Tu oggi conosci altre madri,
conosci altri figli e forse più non sai dire se è
più grande il tuo dolore o quello di una madre che
grida nel cielo pallido il nome del suo bambino, se è
più straziante il Figlio crocifisso o un piccolo
figlio di donna moribondo, mangiato dalle mosche.
O forse solo volevi farci fermare davanti a ogni figlio
di donna, simile al tuo. Forse volevi dirci che il tuo Figlio
sulla croce teneva tra le braccia allargate e gli pesava
sul cuore fino a spaccarglielo il dramma dell'umanità.
Mi
sono fermato. Ho visto un missionario aggirarsi negli accampamenti
della fame e della morte, gli occhi dolenti come quelli
di Maria, una pietà al maschile, testimonianza finalmente
di una chiesa che non ha più parole, che non recita
dall'alto, ma ha negli occhi il grido soffocato di Maria,
ha la misura discreta di chi ti accompagna, dolente come
la madre, in silenzio, a vedere. Ha la misura discreta di
chi, come Giuseppe d'Arimatea, depone il Signore dalla croce
e lo avvolge, senza parole, nel candido lino della sepoltura.
Mi sono fermato e, dopo orge di declamazioni, vedevo un
prete che non recitava. Parlava, dal silenzio degli occhi,
di risurrezione. Là dove tutto sembrava inghiottito
dall'ingiustizia e dalla morte, sembrava dire, nel silenzio
degli occhi, la promessa della risurrezione sul bimbo mangiato
dalle mosche, sulle madre sfinite nella morte, il seno rinsecchito
senza più una goccia di latte,
Le labbra del bambino stavano strette nel rifiuto e insieme,
respiravano un'attesa: "Io vi dico che da ora non berrò
più di questo frutto della vite fino al giorno in
cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio"
(Mt. 26, 29).
Ma
il grido della risurrezione, soffocato negli occhi del missionario,
dolenti come una pietà, diventava grido ed esame
di coscienza contro le tante assurdità della terra:
"O voi che passate per strada, fermatevi e vedete
".
Forse basterà l'implacabile scorrere dei giorni a
lavarci dagli occhi le immagini del deserto. Ma finché
ci resteranno incollate negli occhi, avremo la sapienza
del cuore per misurare le nostre insensatezze e le nostre
assurdità.
Finché rimarranno incollate agli occhi, misureremo
il vuoto di tante parole, di troppi spettacoli, delle nostre
vanità. "Non è ora che ti decida a cambiare
l'automobile?": chiedeva giorni fa un amico. Mi accorsi
per la prima volta che le sue parole risuonavano in me come
lontane, opache, afone, quasi senza eco: erano i giorni
in cui incollate agli occhi stavano ben altre immagini.
Forse un giorno me le scorderò e avrà ragione
ancora una volta, il mercato. Il mercato e le sue leggi
implacabili. Puoi toccare tutto, ma non il mercato. Ormai
è l'unica cosa "sacra".
Passeranno
i giorni e forse dimenticherò. Ma finché rimarranno
incollate agli occhi le immagini dei campi della morte,
proverò vergogna per la "liturgie" vuote
dei governanti, per i loro viaggi, i loro ricevimenti, i
loro sprechi e sognerò il giorno in cui, per rispetto
di quel bambino, si possa viaggiare su un treno qualunque
e senza corte e andare a dire la parola giusta, una sola,
se ce l'hai, senza recitare alla televisione.
Passeranno i giorni e forse dimenticherò, ma finché
mi rimarranno incollate agli occhi le immagini della morte
in diretta, proverò disgusto per le vane dissertazioni
teologiche, per le liturgie sfarzose, per l'ostentata grandezza.
Passeranno i giorni e forse dimenticherò, ma finché
mi rimarranno incollate agli occhi le immagini del deserto,
proverò sì gioia passando la domenica tra
i ragazzi in cerchio sull'altare, ma non potrò non
pensare ai bambini del mondo che vedono in diretta la morte
negli occhi dei loro coetanei.
E allora chiederò a Dio, nel breve tratto che conduce
all'altare, che l'Eucarestia ci parli per quello che è
e perda tante incrostazioni che ne soffocano il mistero
e torni a risplendere nella sua semplicità, come
quando nell'ultima Cena lui, il Signore, disse: "Questo
pane spezzato sono io. Tenete viva la memoria. Fermatevi
e venite a vedere".
È Pasqua, è domenica: "O voi tutti che
passate per strada, fermatevi e vedete se c'è un
dolore simile al mio".
don
Angelo
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