RECITARE
O ESSERE?
Mi
succede -qualcuno la ritiene una mia ossessione- di avere
in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata,
ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato.
Si recita una parte.
A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo :"Stai
recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o
recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o
recitando?". Nella recita non ci sei. C'è una
parte che indossi. Che non è la tua.
INCANTAVA
Gesù
non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava.
Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare.
E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza,
per esempio, di una certa frangia -non tutti!- di farisei
che "recitavano": "Tutte le loro opere le
fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro
filatteri, allungano le frange; amano posti d'onore nei
conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle
piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla
gente"(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla
calda umanità di Gesu, tende a presentarla come se
il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito,
in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere,
di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio
o il profumo dell'unguento, di provare paura e solitudine.
Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua.
Gesù non ha mai recitato. Era.
DOMINANTE
E' IL RUOLO
C'è
il pericolo -lo avverto sempre più acutamente e il
racconto delle tentazioni di Gesù, all'inizio della
Quaresima, lo segnalava- che anche la religione diventi
spettacolo, luogo in cui si recita.
Strano verbo, questo "recitare", che abbiamo nel
nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si "recita"
una Ave Maria o un Padre Nostro, si "recita" il
rosario.
È in agguato la recita. La avverti. A volte è
nell'aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto,
poco naturale, studiato.
Aria strana. L'aria di certi raduni ecclesiastici. Volti
impassibili, non tradiscono la benché minima emozione.
Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono
sempre quelli degli altri. L'inquietudine non esiste. Esiste
la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica:
"Ho peccato". Lo si dice nella Messa, ma per modo
di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo
riconosca. Domina il ruolo. L'impassibilità del ruolo.
Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza.
E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi,
quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano
le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l'inquietudine
e la lontananza.
Scrive l'Arcivescovo: "Non di rado mi spavento sentendo
o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio"
e danno l'impressione che noi sappiamo perfettamente ciò
che Dio è e ciò che egli opera nella storia,
come e perché agisce oin un modo e non in un altro.
La Scrittura è assai più reticente e piena
di mistero di tanti nostri discorsi pastorali".
COME
FIGLI DI DIO
Comunità
alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando
la parte del "perfetto".
Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo
o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci
come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande
dignità che ci è toccata. Non esiste, per
un vero credente, altra tanto grande.
Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l'essere
figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati,
non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli.
Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse
che l' Osservatore Romano introduceva le sue parole con
questa formula di rito: "Come abbiamo potuto raccoglierle
dalle auguste labbra di Sua Santità", chiamò
il capo redattore e gli disse: "Lasciate perdere queste
sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto".
LA
GRANDE OPPORTUNITA'
Quale
perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo
dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà
e l'umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni
puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense.
Rischierebbe l'insignificanza. Verrebbe meno alla grande
sfida, all'opportunità che oggi le si offre di tessere
in una società ampiamente burocratizzata rapporti
autentici e profondi.
Parlando dell'esperienza parrocchiale della "Cattedra
dei non credenti", tempo fa, Federico Moroni così
annotava:
"Nelle città ingranaggio, nella città
tritatutto, che ogni cosa divora e trasforma in rifiuti,
nella città affollata e brulicante di persone, al
tempo stesso muta, opaca, anonima e spersonalizzata, tutti
hanno imparato a chiudersi, a indossare una maschera, a
vivere un ruolo. Negli uffici, nella fabbriche, nei luoghi
di lavoro ma anche nei palazzi -alveare- e nei condomini
più o m,eno grandi, è esclusa l'ipotesi che
una persona "riveli se stesso all'altro", presenti
la dimensione autentica e profonda della sua esistenza.
Si vive gomito a gomito, per anni, ma non ci si conosce:
la banalizzazione e la superficialità delle convenzioni
sociali appiattisce l'interesse autentico per lo spessore
dei problemi dell'altro. In questo senso la città
ottunde.
L'esperienza del gruppo -tanti incontri in ormai tre anni-
ci ha fatto riscoprire che nella città le persone,
oltre che lavorare, vivono, si pongono domande, elaborano
con fatica le proprie risposte.
Dietro i volti, in apparenza anonimi o mascherati, ci sono
le storie, i drammi, i racconti, le illusioni, le disillusione,
i dubbi, le costruzioni di senso.
Solo nella città è possibile una tale ricchezza
e pluralità di percorsi e di storie; e solo nella
città -se si riesce a fendere la barriera grigia
dell'anonimato- c'è la rivelazione, la scoperta sorprendente
dei "tesori" che l'esistenza dell'altro racchiude
e nasconde".
CIO'
CHE IO POSSO DARE
E
non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno
di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione,
meno recite e più vicinanza, più sincerità?
Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore
Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno
di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito
da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino
ai drammi e alle fatiche dell'esistenza quotidiana:
"Un uomo" -scrive- "condusse a Gesù
la figlia ammalata e gli disse: "Io non voglio che
tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò
quella ragazza e disse: "In verità questo uomo
ha chiesto ciò che io posso dare". Così
detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le
folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli".
don
Angelo
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