SCENDERE
A CAFARNAO
La
carne di una creatura. Il suo volto, immagine del tormento.
Ho da confessare che per giorni e giorni -sarà segno
della mia fragilità e della mia pochezza?- mi sono
portato negli occhi , compagno di viaggio inallontanabile
e lacerante, la carne di una creatura, il suo volto, immagine
del tormento.
Ancora oggi, quando mi riviene al cuore, mi si smorza il
sorriso sulle labbra e misuro l'enfasi vuota di tanti nostri
problemi: li vedo cedere d'improvviso, denunciando labilità
e inconsistenza.
***
Sono rimasto per più di un'ora accanto a un letto
d'ospedale, a Passirana di Rho, poco fuori Milano.
Mi aveva chiamato con urgenza un'assistente sociale.
E. C. -mi diceva al telefono- voleva vedermi. Ma che facessi
presto, fin tanto che le rimaneva la possibilità
di parlare. Sedata com'era, di lì a poco le sarebbe
stato pressoché impossibile spiccicare parola.
OCCHI
ABITATI DALL'ANGOSCIA
Rimanere
accanto a un letto per più di un'ora. E, per più
di un'ora, sentirti dire implacabilmente: "T'imploro,
fa' qualcosa per farmi morire. Tu non mi puoi abbandonare
così. Tu non puoi volere che io vada a morire in
un ospedale psichiatrico. Mi capisci? Io mi sono buttata
dalla finestra perché davanti agli occhi avevo lo
spettro del manicomio ed ora mi ritrovo con davanti il manicomio
e per di più in carrozzina. Tu non puoi chiamare
vita un vivere per essere cateterizzata; piagarmi giorno
dopo giorno; giorno dopo giorno essere uccisa dentro, in
un manicomio. Tu non puoi permettere che alle persone che
amo sia legato questo peso per tutta la vita. Tu non puoi.
Tu devi fare qualcosa per farmi morire!".
Rimanere per più di un'ora e sentire questa implorazione
sempre uguale, sussurrata lucidamente, struggente e implacabile
a un tempo.
***
E fissare occhi, abitati un giorno da una luce infinita
e ora vederli abitati dal tormento.
E sentire il vuoto delle parole, le nostre, quelle quotidiane;
e soffrire la lontananza di altre parole, anche quelle così
precise, ma anche così asettiche e gelide -buone
per ogni stagione- dei nostri documenti.
Nascere, soffrire e morire oggi. E che cosa dice l'Evangelo?
Che cosa dice l'Evangelo a E., ai suoi occhi abitati dall'incubo
e dalla paura?
***
Rimanere per ore accanto a un letto e capire che è
comodo -troppo comodo- leggere il Vangelo nelle chiese,
tanto più se lo si legge al di là di ogni
confronto con la durezza del vivere, quasi fosse una parola
per le quattro questioni -questioni da poco- che immiseriscono
l'orizzonte delle nostre comunità.
Fissare struggentemente, dolcemente gli occhi abitati dal
tormento e riandare d'istinto alle parole del nostro Cardinale,
nell'ottobre scorso, al VII Simposio dei Vescovi europei.
"Che
cos'era Nazaret? Una insignificante borgata della Galilea,
non nominata dall'Antico Testamento, né da Giuseppe
Flavio, né dal Talmud. Essa rappresenta il luogo
della tranquillità paesana, delle semplici abitudini
contadine, delle piccole gelosie e degli orizzonti ristretti.
Al suo confronto, Cafarnao appare come la città aperta,
complessa, luogo del lavoro e del commercio, dello scambio
e del traffico, città di frontiera, nella Galilea
delle genti, sede del presidio romano, luogo di incontro
tra diverse culture.
Andare a Cafarnao vuol dire, dunque, per Gesù, uscire
dall'abituale, dal previsto, affrontare il cambio, gli incontri,
ciò che noi chiamiamo la "modernità",
la "complessità", il "pluralismo".
Scendere a Cafarnao era affrontare il nuovo modo di vivere,
la gente, la quotidianità segnata dal lavoro duro
e dalla sofferenza, dal nuovo e dall'insicurezza. Non per
niente l'evangelista Marco descrive il primo soggiorno a
Cafarnao come un incontro con indemoniati e con tutti i
malati (Mc 1, 23.30-32).
Gesù non affronta questo cambio quasi malincuore,
restando ancora nostalgicamente nel quadro nazaretano. Egli
accetta Cafarnao, tanto che essa verrà detta la "sua
città" (Mt 9,1). Questo non gli impedisce di
essere libero e critico verso di essa. Non ne tace le colpe,
non risparmia le ammonizioni, fino all'invettiva, come si
vede in Matteo 11, 23. Ma tutto parte da un intenso amore,
da una quotidiana presenza, da un essersi fatto partecipe
del destino e delle sofferenze della sua gente".
***
Scendere a Cafarnao può allusivamente significare
per un credente scendere negli interrogativi di chi soffre
e patire il silenzio di Dio.
"Essere dentro la malattia secondo la legge dell'incarnazione"
- mi è capitato di scrivere lo scorso anno per la
rivista "Servitium" - "significa il più
delle volte tacere.
Tacere e condividere nel silenzio l'interrogazione che non
ha risposta nell'immediatezza: "Dio mio, Dio mio, perché
mi hai abbandonato?". L'interrogazione, patita insieme
nei lunghi silenzi con i malati, crea la terra d'incontro,
crea profondità di comunione.
Chi sa misurare ciò che nel silenzio è passato
dall'uno all'altro in quell'interrogare e rispondere degli
occhi, in quello stringersi a non finire delle mani, in
quella tenerezza limpida dell'accarezzare un volto?".
L'ICONA
DEL CROCIFISSO
Scendere
a Cafarnao.
E svelare l'Evangelo, quello custodito più nella
carne sofferente di un uomo o di una donna che nella molteplicità
asettica delle nostre parole.
"Cristo mediante la sua sofferenza salvifica si trova
quanto mai dentro a ogni sofferenza umana e può agire
dall'interno di essa con la potenza del suo Spirito di verità,
del suo Spirito consolatore" ("Salvifici doloris"
n.26).
Tu, E., sei per me il volto sofferente del Signore; sei,
nonostante tutto, limmagine di una fede che è perseverare
nel Signore, anche nei giorni della fatica e dell'angoscia.
Tu, con la tua carne, limpida contestazione di una società
che va censurando il morire e il soffrire, seducendoci ininterrottamente
con il mito dell'uomo forte, potente, sicuro di sé,
brillante, dominatore.
Tu, limpida contestazione di ogni cristianesimo e di ogni
grazia di basso profilo: cristianesimo e grazia a basso
prezzo.
Tu, come ogni malato e ogni sofferente, limpida contestazione
al nostro ecclesiastico parlare "dall'alto" e
"dal di fuori".
Unica parola a rimanere, nell'inconsistenza delle parole
umane, quella della Croce, unica luce accesa nella casa
del dolore, unica parola che non offende, ma redime, perché
scritta non al di fuori, ma al di dentro dell'umano soffrire.
E
LEGGERE UN SEGNO
Rimanere
accanto a un letto, ascoltare un'implorazione di morte e
capire lucidamente che le nostre parole, quelle più
sacre, quelle della fede, quelle che affidano alle mani
di Dio -non alle nostre-, al disegno di Dio -e non al nostro-
il soffio della nostra vita, diventerebbero parole dimezzate,
frammenti incomprensibili, se abbandonassimo chi soffre
alla solitudine di un tunnel buio e raggelante, se non disegnassimo
spazi dove l'umanità di una creatura è accolta,
stimata, amata.
Penso alle strutture ospedaliere o alle nostre stesse case,
dove l'attesa di un malato non può essere letta semplicemente
come attesa di essere curati meglio, ma come attesa di essere
riconosciuti, visti, visitati.
Scendere a Cafarnao è anche rimanere accanto a un
letto e leggere il segno negli occhi abitati dalla paura.
***
Gli occhi di E. evocavano, nonostante tutto, squarci di
una storia, che non potevo dire irrimediabilmente perduta.
Forse è solo da disseppellire.
Storia di un liceo dove mi era toccata anni fa l'avventura
di insegnare religione nei giorni della contestazione.
E quell'ora diventata spazio di ricerca, di confronto a
tutto campo, di dialogo appassionato.
E lei, E., credente, a tessere con la sua sensibilità
spazi di amicizia e di comunicazione.
Il liceo, la laurea in medicina, il matrimonio
poi
la depressione.
Abitava i suoi occhi una tenerezza infinita. Non è
spenta. Ha bisogno di mani e di cuore per essere risuscitata.
Ha bisogno di qualcuno che scenda a Cafarnao.
don
Angelo
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