UN
COMUNE E LA TORRE DI BABELE
L'invito mi incuriosiva.
Forse anche per questo, dopo essere stato in dubbio se accoglierlo
o no, dentro una quaresima già colma di impegni,
alla fine decisi per il sì.
Mi si chiedeva di tenere uno degli incontri promossi da
una "amministrazione comunale".
Ti confesso che, se la proposta fosse venuta da ambienti
ecclesiastici, avrei detto di no.
Mi incuriosiva -era decisamente intrigante- il sottotitolo
che nell'opuscolo/invito segnalava i destinatari degli incontri,
promossi dall'amministrazione comunale: "per credenti,
non credenti e dubitanti".
"Dubitanti", ovvero della razza di Tommaso, quello
che credeva ai suoi occhi e alle proprie mani, una razza
che ci appartiene.
Il comune, un comune della Brianza. Luogo dell'incontro,
l'Auditorium di una Scuola Media. Il tema che mi veniva
offerto, la Torre di Babele.
La
serata ebbe come un'introduzione. Introduzione fu una casa,
una cena. Introduzione nel senso vero della parola: "condurre
dentro", dentro i pensieri, dentro le interrogazioni.
Dentro o fuori? Perché la casa di Maria Cristina
e di Eugenio prendeva ai miei occhi la figura amata di una
"soglia", soglia da cui spiare lo "sconfinato".
Mi
accarezzava
dalla soglia
il profumo della casa.
Era
e non era
il profumo
delle erbe che tu ami.
Cercavo
l' "in principio"
di un profumo.
E forse era
nei tuoi occhi neri ,
era nella festa
degli sguardi di Eugenio.
Era nel sapore del pane
sacramento della casa
che le tue mani
avevano per noi impastato.
Né
so
se a profumarlo
fosse la bianca farina
dei campi
o la nostalgia dello "sconfinato"
che lo abitava.
La
casa di Maria Cristina e Eugenio, l'aria buona, lontana
da ogni declamazione, lontana dall'ufficialità, dove
puoi riposare -riposare negli occhi di un uomo, di una donna-,
dove le parole hanno il timbro tenero del racconto e non
quello spento dell'esibizione, dove lo spazio è sconfinato
introduzione vera al racconto della Torre, nel libro della
Genesi.
Di
lì a poco, nell'Auditorium di via Italia, a "discutere".
"Venite, discutiamo, dice il Signore" (Isaia 1,
18): così l'invito dell'amministrazione comunale.
Leggemmo il racconto dell'impresa degli umani dentro una
piana, in terra di Shinar: "Disse l'uomo al suo compagno:
"Orsù! Costruiamo una città e una torre,
la cui cima sia in cielo, facciamoci un nome per non essere
dispersi sulla faccia della terra"" (Gen 11, 3-4).
Combattere la dispersione, farsi un nome per non essere
dispersi, può sembrare a prima vista un sogno da
tenere davanti agli occhi, un lavoro per cui vale la pena
di faticare sulla terra.
Ma una lettura disincantata del sogno inseguito nella piana
di Shinar apre a qualche sorpresa.
Il racconto infatti è come assediato -intrigante
assedio- da nomi e nomi, prima e dopo, nella successione
di lunghissime genealogie, nomi di uomini, nomi di terre,
nomi di faticosa pronuncia. O forse è vero che il
nome più difficile diventa pronunciabile, quando
conosci chi lo abita?
Il
lungo elenco di nomi, i nomi dei popoli, mappa segreta dell'umanità,
ha un fascino a non finire, se quei nomi li vai nel cuore
immaginando narrati da un antico di giorni, accanto al fuoco
in una notte di veglia e più non sai se negli occhi
dei bambini in ascolto il riverbero è quello del
fuoco o la magia di quei nomi impossibili.
E gli occhi dei bambini -ma solo quelli?- a immaginare che
cosa stia dietro quei nomi, dietro quelle terre, le storie,
le storie da raccontare, le infinite storie da raccontare.
Ed ecco apparire dentro le storie un progetto, all'apparenza
degno di lode, -ma quanti progetti all'apparenza degni di
lode andrebbero indagati con gli occhi del disincanto!-
il progetto di farsi un nome, un nome solo, il progetto
di abitare una valle, una valle sola, il progetto di una
lingua, una lingua sola, e la Torre, la torre di controllo,
con la testa nel cielo.
I
racconti del fuoco si erano dunque presto cancellati dalla
memoria? Non era forse paradossalmente disegno di Dio, eco
delle sue parole, dentro una benedizione, proprio la dispersione?
È scritto: "Dio li benedisse e disse loro Dio:
"Fruttificate, moltiplicatevi e riempite la terra""
(Gen 1, 27). Questo generare, questo disperdersi, questo
occupare la terra, dunque dentro la benedizione di Dio...
È affascinante pensare che questa varietà
dei popoli è nel segno della benedizione, che questa
differenza -tra uomo e uomo, tra uomo e donna, tra popolo
e polo, tra cultura e cultura, tra religione e religione-
è una differenza benedetta, che questa molteplicità
è una molteplicità benedetta.
Non è la dispersione, dunque, non è la molteplicità
dei nomi che va giudicata negativamente. Negativo è
il progetto contrario -quello che Dio disperde- il progetto
di imporre un'unità non voluta da Dio, un'unità
che nasconde la volontà di dominio.
Ideale da inseguire non è avere la stessa lingua,
avere le stesse parole. Non facciamo fatica infatti a immaginare
che, se ci sarà una parola unica, questa sarà
la parola del più forte, del più potente,
di chi detiene il potere.
Guardiamoci da una parola unica: sarà quella di chi
detiene il potere, di chi ha i mezzi per farsi sentire,
i mezzi per imporre la sua voce, l'unica voce.
Mi
prende tristezza se penso agli uomini venuti dall'oriente
-parola affascinante "oriente", parola che disegna
orizzonti sconfinati- venuti dall'oriente e ora sedotti
dalla magia dell'unica lingua, dell'unica parola, inghiottiti
nell'unica vallata, rinchiusi nel progetto dell'unica torre.
"Si stabilirono": è scritto. Quasi avessero
fermato il cammino, quasi avessero perso la loro figura
originaria, quella che appartiene ad ogni uomo ed ad ogni
donna, la figura del nomade, per diventare gli uomini della
torre, la torre del controllo.
Dall'incontenibile andare dell'insonne ricerca al grido
di chi, tronfio, urla dalla torre: "Tutto è
sotto controllo". Anche la verità, povera verità!
È
scritto che Dio scese, confuse il progetto e li disperse
di là su tutta la faccia della terra.
Quasi volesse Dio smascherare il progetto "unità",
progetto che nasconde spesso, troppo spesso, il dominio:
un'unità che soffoca la diversità, che uccide
l'immaginazione. Il modello è unico, va esportato.
Il modello politico, il modello sociale, il modello economico,
il modello religioso è unico, va solo esportato.
Consapevolmente o no si ritorna a Babele, alla torre, mentre
di là Dio ci aveva dispersi.
Scrive Erri De Luca: "Ricondurre l'umanità,
dispersa in Babele, verso un'unica altura e a un solo altare
è impresa forse non gradita a Dio, che presso la
torre disperse il più grande progetto ecumenico tentato
dagli uomini.
Forse Dio apprezza di più i molti nomi con cui i
popoli lo hanno rivestito nelle loro lingue" (Una nuvola
come tappeto, Feltrinelli 1994, pag. 18).
Ritornare verso un'unica altura, a un solo altare o riprendere
il cammino condotti dal vento incontrollabile dello Spirito?
La
sala dell' Auditorium di Macherio, la casa di Maria Cristina
e Eugenio sono quasi un simbolo dello smascheramento della
falsa unità e della dispersione voluta da Dio, segnalano
strade nuove, anche alle chiese che stentano a capire.
Dio non ci chiede di cambiare la nostra lingua, tanto meno
ci chiede di creare un'unica lingua, una sorta di esperanto
dello spirito. Ci chiede di ascoltare il segreto che abita
le settanta lingue.
Allargo gli occhi agli uomini e alle donne dell'Auditorium
nella sera tarda: il vento filtra dalle loro domande, il
vento riposa e riparte dalle loro risposte.
Non sarà già questa un'immagine della terra
come l'ha sognata Dio, terra dalle molte lingue, che si
sanno ascoltare nella loro diversità?
Non
sembrano al contrario andare per le vie di questa millenaria
sapienza, custodita nelle pagine della Genesi, i rimedi
che spesso vengono invocati in troppo nostri discorsi, là
dove si denuncia il male dell'incomunicabilità -una
incomunicabilità che sfiora tutti i livelli- e si
conclude pessimisticamente: "Non c'è più
un'unica lingua, parliamo lingue diverse".
Il problema, se stiamo al racconto della Genesi, non è
che parliamo lingue diverse, il problema è che non
sappiamo ascoltare: ascoltare il segreto che abita la voce
dell'altro.
Il problema è, e sarà sempre, la pretesa assurda
di chiudere in una torre, la nostra, l'orizzonte sconfinato
del cielo.
don
Angelo
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