IL
DISAGIO DI DIRSI CATTOLICI
Un
messaggio, purtroppo anonimo, sulla segreteria telefonica
della parrocchia, la voce di una donna, il tono, quello
acido di chi è indignato.
Mi sembra di capire che anche la sgrammaticatura venga da
un eccesso di concitazione: "Non sono affatto d'accordo
che in parrocchia venghino a parlare i non credenti. Se
ne stiano fuori. Fuori dei nostri ambienti sacri. Non sono
per loro".
E poi il silenzio. Speri in un nome, ma il nome non arriva,
in un numero telefonico, ma rimane nascosto. Il messaggio
è senza volto. Vorrei capire, ma il bit spegne tristemente
ogni possibilità, dice che tutto è finito.
Come sarebbe bello -mi dico- in questi casi poterci raccontare
il vangelo di Gesù.
Portiamo il suo nome come un fiore all'occhiello, ma a volte
è come se fosse un nome senza vangelo, è rimasto
solo un pallido nome. Con il rischio che, per difendere
Gesù, facciamo o proponiamo cose che a volte sono
agli antipodi di ciò che faceva Gesù secondo
i vangeli.
Ma come è possibile -mi chiedo- che il cuore di un
cristiano non sia attraversato se non altro da qualche dubbio
o incertezza, quando si proclama con tanta foga che nei
nostri spazi non ci deve essere posto per i non credenti:
e se ci sono tacciano, lo spazio è sacro, è
precluso, non vengano a dissacrarlo.
È
impallidita a tal punto la memoria di Gesù, scolorito
a tal punto il suo volto, da non ricordare pagine e pagine
di vangelo che cantano una canzone diversa?
Come non ricordare che, se c'era uno che scandalizzava per
la sua accoglienza, era Gesù di Nazaret? Lui che
mangiava con i peccatori, lui che diceva: "Le prostitute
vi passano avanti nel regno di Dio", lui che si incantava
davanti alla donna siro-fenicia. Lui, spinto dalla donna
pagana a superare il confine "puro e impuro",
diceva: "Donna, davvero grande è la tua fede".
Era una pagana, non avrebbe avuto, secondo alcuni, diritto
di parola. La chiesa ortodossa, di parere diverso, in un
prefazio della sua liturgia, chiama la donna siro-fenicia,
la pagana: "apostola e teologa".
Gesù apriva porte e finestre. Qualcuno vorrebbe chiudere
porte e finestre e dire: "Questa è la chiesa".
Ma chiesa di chi? Di Gesù di Nazaret?
Ora
capisco gli occhi tristi di una mia amica che tempo fa mi
diceva: "Quando nella recita del Credo arrivo alle
parole credo la chiesa cattolica provo un colpo al cuore
se tu vedessi che esempio di grettezza e di arrivismo quelli
che nella mia scuola si proclamano cattolici! Provo quasi
vergogna a dire di esserlo".
Mi specchiavo nella tristezza di quegli occhi.
Quando -mi chiedevo- l'aggettivo "cattolico" ritornerà
al suo vero significato? La parola viene dal greco e significa
universale, il mondo intero, le porte aperte.
Non è dunque un buon servizio né a Cristo
né alla Chiesa costruire comunità dalle porte
chiuse. Chi ama la Chiesa? Chi offre esempi di grettezza
di cuore, di povertà di visione, chi costruisce comunità
chiuse o chi affascina, come Gesù, per l'ampiezza
e la gratuità dell'accoglienza, per l'universalità
della visione, chi costruisce comunità di dialogo
e di ricerca, "spazi del libero pensare e del genuino
domandare, non assediati da vischiosità clericali"
direbbe un teologo che noi stimiamo?
Sere
fa Elisabetta, dopo una riunione delle giovani coppie, mi
confidava: "Forse tu non ti rendi conto come sia inusuale
che persone, che vengono da storie tanto diverse, possano
trovarsi insieme e possano tra loro comunicare cose così
profonde. A volte mi commuove il pensiero che in una città
come la nostra ci sia un angolo dove possa accadere questo".
Il volto era come scavato dalla fatica, ma gli occhi, come
quelli di Magda, vivi. Vivi come la luce.
Gli
spazi chiusi, le menti ristrette non parlano né di
Dio né di Gesù. Anzi lo fanno bestemmiare,
diceva sere fa Enzo Bianchi.
Concludeva il suo intervento raccontando un'esperienza e
diceva: "Nei mesi scorsi, con alcuni preti di Torino
città, centro e periferia, si è andati semplicemente
nelle scuole, scuole confessionali e scuole statali, percentualmente
quel numero che ci sono a Torino, e sono stati interrogati
quattromila ragazzi delle medie e delle superiori, con un'intervista
molto semplice, distribuendo a tutti un foglio, dando loro
i venti minuti, dicendo: "Da questa parte scrivi o
disegni qualcosa che riguarda Dio, da quest'altra parte
tu scrivi o disegni qualcosa che riguarda la Chiesa. Cosa
ti evoca? Che cosa ti viene in mente?".
Badate è impressionante. Pubblicheremo questa inchiesta
e i risultati.
Impressionante: l'80% ha disegnato da una parte un vecchio
barbuto, questo era Dio per loro, con scritto vicino: "dieci
comandamenti, leggi, morale". A nessuno è venuto
in mente di accostare la parola "Dio" a Gesù
Cristo. Nessuno. A nessuno è venuto in mente di accostare
la parole "vita", la parola "amore",
la parola "risurrezione".
Dall'altra parte, accanto alla parola Chiesa, notate, su
quattromila uno ha scritto "libertà". Sembrava
che avesse scritto solo per dire: "Guardate che si
poteva dire libertà, ma tremilanovecentonovantanove
non se lo sognano, guardando la chiesa com'è. E di
nuovo c'era scritto: "Papa, vescovi, preti": la
parola "chiesa" li faceva venire in mente. Nessuno
che ha scritto: Gesù Cristo. Nessuno che ha scritto
beatitudini. Nessuno che ha scritto libertà, comunità.
A me la prima cosa che verrebbe in mente sentendo dire "chiesa"
è comunità. Mai, mai, su quattromila".
Capisco
ora, solo ora, lo stupore negli occhi di Elisabetta per
le parole libertà, condivisione, cammino comune,
legate alla sala di una parrocchia, una sala che è
diventata un po' come la nostra casa.
Chi ama di più la chiesa? Chi lavora perché
agli occhi dei ragazzi di oggi evochi quasi esclusivamente
gerarchia o peggio ancora arroganza, dogmatismo, noia, monolitismo
o chi lavora perché evochi comunione, libertà,
condivisione, rispetto delle diversità?
Chi ama di più la chiesa? Chi lavora per immagini
di chiesa che ti fanno provare disagio a dirti cattolico
o chi lavora per immagini di chiesa che custodiscano il
fascino mai spento di Gesù di Nazaret?
Posso
sbagliarmi, ma mi sembra di capire che questo proprio non
è tempo in cui si possano chiudere le porte e le
finestre. Mi sembra di capire che questo è invece
tempo in cui aprire un'infinità di vie e di percorsi,
questo è tempo di uomini e donne, come Elisabetta,
come Alessandra, due nomi per dire centinaia, che in questi
anni, in una città come questa, con la loro sensibilità
hanno creato contatti, hanno tessuto fili, hanno aperto
fessure e spiragli, hanno sfatato immagini arroganti di
chiesa, hanno seminato curiosità e interrogazioni,
senza cedere mai alla falsa contrapposizione tra la comunione
con i credenti e la compagnia degli uomini.
Non
la parrocchia roccaforte, ma la parrocchia evocata dal nostro
Arcivescovo nell'immagine del fuoco, un fuoco acceso ai
margini del bosco.
"Porto spesso, nei Consigli pastorali, l'immagine del
fuoco acceso dagli scout nella notte, ai margini di un bosco.
Alcuni di loro si lasciano arrostire, buttano la legna sul
fuoco, lo attizzano; altri si avvicinano per scaldarsi;
altri ancora stanno lontano, hanno paura di avvicinarsi,
però sono attratti. È molto importante che
questo fuoco ci sia, perché oggi o domani si accosteranno
tutti e alla fine aiuteranno a mettere la legna. Il Signore
vuole la salvezza di tutti, la comunità opera anche
a favore di chi vaga nel bosco e di chi è un po'
fuori dai margini.
Il fuoco che è per tutti è un'immagine della
pluralità. Pur se non sono tanti quelli che si impegnano
nel buttare la legna, sono di più quelli che approfittano
del fuoco e tantissimi quelli che si salvano, quelli che
giungono a conoscenza della gratuità di Dio, del
suo amore, del suo perdono" (da un "discorso ai
parroci di nuova nomina", Triuggio, 13.1.1999).
don
Angelo
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