LO
SCANDALO DELLA DEBOLEZZA
Un
giorno disse: "...e beato chiunque non sarà
scandalizzato di me!" (Lc. 7,23): le ultime parole
di Gesù sul biglietto di presentazione, quello che
i discepoli avrebbero recato a Giovanni il Battista. Li
aveva mandati a Gesù con una domanda precisa: "Sei
tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?".
Non so se interpreto correttamente, ma mi sembra di capire
che agli occhi di Giovanni, il Rabbì di Nazaret aveva
tutta l'aria di essere un Messia debole. Per il suo modo
di vedere, troppo debole.
Gesù manda a dire: "I ciechi riacquistano la
vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i
sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata
la buona novella".
Ci sono i segni. Ma subito aggiunge: "...e beato chiunque
non sarà scandalizzato di me". Come a dire:
non lasciatevi prendere troppo dall'immagine di un Messia
potente, perché poi rimarreste delusi, turbati, scandalizzati
davanti a un Messia che non restituisce la vista a tutti
i ciechi, che non fa camminare tutti gli zoppi di Palestina,
che non risana ogni lebbroso... beato te, Giovanni, se non
rimarrai scandalizzato di un Messia che non apre le porte
del tuo carcere. Beati, con te, tutti quelli che non saranno
scandalizzati di un Messia debole, svuotato di ogni potenza,
che muore su una croce.
Di un Dio debole ci si può scandalizzare. Di un Dio
forte no.
È ovvio, è secondo le aspettative di tutti
che Dio sia forte, potente.
Ma
il Dio della Bibbia non è e non sarà mai un
Dio ovvio: quando la domenica, nelle chiese, leggiamo pagine
delle Scritture, la sensazione più frequente è
quella di trovarci di fronte a immagini e messaggi tutt'altro
che ovvi e spesso patiamo lo scandalo. Anche per la debolezza
di Dio.
Così come patiamo lo scandalo delle sua debolezza,
quasi quotidianamente, nella vita, quando vediamo la menzogna
e l'arroganza vincenti, il povero senza voce, una giovane
vita stroncata, l'amica che vive il dramma di essere sieropositiva...
e il miracolo? Il miracolo che non accade.
"...e beato chiunque non sarà scandalizzato
di me".
Non sarà -mi chiedo- da leggere come un segno d'amore
questo indebolimento di Dio, quasi un ritrarsi per far spazio
ad altri?
Dovremo ancora a lungo dar credito ai giullari che hanno
la spudoratezza di cantare come amore l'occupazione? Ti
occupo per amore, ti invado per amore.
Nonostante il persistere di simili giullarate ci è
difficile crederlo. Ci è più facile credere
in un Dio che si è "ritratto" per amore.
Rimane
comunque lo scandalo della debolezza di Dio.
Oggi qualcuno va sussurrando che la debolezza di Dio è
l'ultima trovata di un uomo debole, che si costruisce un
Dio a sua immagine e somiglianza, un Dio debole a copertura
e giustificazione delle proprie debolezze, un Dio dopotutto
comodo.
Posso sbagliarmi, ma mi sembra tutt'altro che accomodante
l'immagine di un Dio che, per amore, si ritrae e dà
spazio e dice: "fate questo in memoria di me".
Molto meno esigente, più accomodante l'immagine di
un Dio che, spinto dalla sua onnipotenza, invade, occupa
spazio e dice: "fate questo in memoria di me, occupate
e invadete. Occupa, invadi il mistero, la vita, occupa e
invadi l'altro, occupa e invadi la terra".
Mi affascina, ma insieme mi provoca l'immagine di un Dio
che si intenerisce e si ferma davanti a un volto, davanti
alla fragilità di un volto.
E
dunque non scandalizzarti della tua debolezza. E non scandalizzarti
della debolezza altrui.
Dio si è fatto debole forse anche per questo: perché
nel cuore di ogni debolezza là dove un giorno saresti
arrivato, tu trovassi il suo nome e il suo mistero.
C'è nell'aria, purtroppo anche ai nostri giorni,
un'immagine di potenza che uccide: o sei al massimo livello
o sei pietra di scarto.
Una società, anche la nostra, che avanza pretese
sulla vita. E tu devi stare al passo. Alla pari con i sogni
dei tuoi genitori o dei tuoi figli, con i sogni dei maestri
e dei preti, con i sogni dei tuoi amici e colleghi. E non
con quel sogno, a tua misura, debole misura, che Dio ha
chiuso dentro di te.
Dal modesto osservatorio di una vita come la mia ho visto
purtroppo ragazzi andarsene e scomparire nel vuoto, perché
la corsa era impari a pareggiare i sogni che gli altri avevano
costruito su di loro, era impresa titanica, umanamente impossibile.
Impossibile, o quasi, vivere in una società che non
accetta, non accoglie e non ama la tua debolezza.
Se
non è la fuga -la fuga della vita- è o potrebbe
essere la mascherata.
Imperversa silenziosa la grande mascherata con cui tenacemente
nascondiamo in faccia agli altri la nostra debolezza: non
bisogna tradire -ne andrebbe della propria immagine- la
benché minima debolezza. E così ci parliamo
da maschera a maschera. Non da volto a volto. Il volto è
fragile, è indifeso, è debole il volto.
E se amassi il volto, la debolezza del volto?
È
il sentirci amati -amati nella nostra debolezza- che mette
fine alla grande mascherata: proprio perché tu mi
ami così come sono e non come dovrei essere, proprio
perché mi ami con la mia debolezza, posso dirmi,
così come sono, a te.
Accettare l'altro nella sua debolezza è dunque preludio
tenero al suo svelamento, a rapporti che non siano nella
menzogna, ma nella verità.
Mentre l'idea di onnipotenza fa strage dentro di noi e fuori
di noi, il chinarsi sulle cose umilmente dà fiato
alla speranza.
"Non aspirate a cose troppo alte" -scrive l'apostolo
Paolo ai Romani- "piegatevi invece a quelle umili.
Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi" (Rom.
12,16).
Abbiamo
costruito, forse senza avvedercene, modelli prepotenti,
spesso impraticabili e li abbiamo caricati incautamente
sulle spalle della gente, fino a far sentire fallito chiunque
non avesse resistito a portarli.
Così i nostri modelli culturali e ecclesiali finiscono
per essere spietati e ci fanno spietati. Non tengono conto
della povera tenera misura altrui, giudicano dall'alto di
una gelida verità.
Se un figlio, un povero figlio, vola da una finestra, ci
sentiamo in diritto, in forza del nostro modello di famiglia
o di educazione, di giudicare genitori, famiglia e case.
La prepotenza del modello ha la meglio sulla tenerezza del
volto.
Non per niente viviamo in una società che grida,
che urla sulle piazze, che esibisce l'onnipotenza dei progetti.
È un inseguirsi sconcertante di maschere.
Del Messia è scritto: "Non griderà né
alzerà il tono, non farà udire in piazza la
sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà
uno stoppino dalla fiamma smorta" (Is. 42, 2-3).
La debolezza, la povera misura di ognuno di noi, la povera
misura delle nostre giornate, ha bisogno di silenzi e di
accoglienza.
"Se vuoi correggere il tuo amico" -dice un proverbio
africano- "prima cammina sette giorni con le sue scarpe".
La
carità -ci ricordava il filosofo Gianni Vattimo in
un incontro che ha lasciato lunga eco nei nostri cuori-
è l'amore per l'altro "così com'è"
e non "come dovrebbe essere". Se amiamo gli altri
non come sono, ma come dovrebbero essere, tocchiamo la maschera
ma non il volto.
Gesù toccava i volti.
don
Angelo
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