PERCHÉ
UN BUCO NERO?
Così la piazza -un buco nero- ai miei occhi, arrivando
nella notte, dopo la circolare con brusca frenata ci aveva
sbarcati in un viale, illuminato non dico a giorno, ma quasi.
Pochi passi e un'altra via. Qui le luci già arrese,
quasi rarefatte. Poi il buco nero della mia piazza. A stento
vi apparivano le sagome degli alberi inghiottiti nel mistero.
C'è piazza e piazza, nella stessa città -mi
dicevo- a dispetto delle declamazioni sull'uguaglianza.
Pensieri della strada, pensieri della notte, pensieri sulle
piazze e sulle città.
Attraversando
il buio, mi ricordai che di piazze e di città aveva
parlato giorni prima il Cardinale in una sua conversazione
con i giovani.
Come spesso succede, il discorso sui mezzi di informazione
era stato rozzamente mutilato, isolandone i passi che parlavano
di una città enigmatica -l'enigma di Milano- per
dedurre sorprendentemente un'ipotetica incomprensione tra
il Cardinale e la città.
Siamo al punto che oggi confessare umilmente che qualcosa
ci sfugge o delle città o delle persone o anche di
Dio sia indice di insensibilità o segno di debolezza.
Evidentemente c'è qualcuno che ha il "dono"
di sapere tutto di tutto e di conseguenza l'autorità
di pontificare dai giornali, cattolici o laici che siano,
è poca la differenza.
Ma
i pensieri, i miei, ritornavano insistenti nella notte alla
piazza, al suo significato nella vita e nella città.
La piazza quasi simbolo.
La città è fatta di vie, "vie" -diceva
l'Arcivescovo- "che aiutano a comunicare nella città.
Sono le vie dell'amicizia, e già Aristotele considerava
l'amicizia il bene più grande della città:
non è la giustizia, affermava, perché la giustizia
non salva; rende forse sicura la città e però
la rende rigida, dura inflessibile; la città ha bisogno
dell'amicizia. Se riuscire a creare delle vie lungo le quali
porre un'amicizia sincera, avrete amato molto la città".
L'arcivescovo,
dopo aver evocato le vie della città, aveva alluso,
nella conversazione, alle piazze, come a "luoghi per
dialogare e incontrarsi". "L'agorà, l'ambito
cioè dove si trovano persone che la pensano anche
diversamente, che hanno provenienze diverse, progetti diversi,
ma che li confrontano".
Non vorrei apparire ingeneroso nel giudizio, ma non sempre
ci preoccupiamo di immaginare gli esiti di scelte che oggi
facciamo a cuor leggero.
Siamo così sicuri che l'aver cancellato o quasi l'esperienza
delle piazze sia stata una scelta dopo tutto innocua, insignificante,
indolore?
Giorni fa Erri De Luca in un suo scritto denunciava come
impoverimento del vivere sociale l'estinzione nel contesto
urbano dell'esperienza delle osterie, un'esperienza, quella
delle osterie, liquidata in modo sbrigativo con una certa
sufficienza dai circoli cosiddetti illuminati.
L'osteria. E la piazza?
Eppure
la Bibbia quando vuole evocare una città ricostruita,
il paese del futuro, "la città della fedeltà",
immagina una città con piazze.
"Dice il Signore degli eserciti: "Vecchi e vecchie
sederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con
il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze
della città brulicheranno di fanciulli e fanciulle
che giocheranno sulle sue piazze"".
Continua il testo: "Dice il Signore degli eserciti:
"Se questo sembra impossibile agli occhi di questo
popolo in quei giorni, sarà forse impossibile anche
ai miei occhi?"" (Zc. 8, 4-6).
Gli occhi di Dio sognano le piazze, luogo dell'incontro
aperto, spazio libero da pretese d'appartenenza. Non sei
bloccato all'ingresso per via di un vestito non ritenuto
congruo, né per via delle tue idee, che non corrispondono.
Trovi uomini e donne come te, con loro metti a confronto
le diversità. E nessuno che sia in cattedra.
A
volte tendo ad immaginare una chiesa che abbia ancora il
coraggio di sognare, come sogna il suo Dio. E abbia il coraggio
di sognare le piazze.
Sognare le piazze là dove per l'insipienza degli
urbanisti sono state cancellate, e, proprio per fedeltà
al sogno di Dio, rivendicare spazi, ma spazi per tutti,
spazzi della cittadinanza, spazi che, sia pur da lontano,
evochino le piazze di Gerusalemme, quelle che sogna Dio,
luoghi dell'incontro.
Sembra
di capire, leggendo la Bibbia, che anche la piazza è
soggetta a fraintendimenti e tradimenti. Succede quando
si fa lontano il sogno di Dio.
Non è dunque vera piazza la piazza sulla quale qualcuno
pretende l'esclusiva: e che nessuno osi mettere piede, la
piazza è mia. Una piazza degradata a recinto. Piazza
a una sola voce. Piazza delle declamazioni.
Non è piazza secondo il disegno di Dio la piazza
dell'esibizione, dell'ipocrisia. Il Vangelo mette ampiamente
in guardia dalle piazze trasformate in palchi della vanità
umana. Stravolgimento della piazza.
Già nel rotolo di Isaia del Messia è scritto:
"Non si udrà sulle piazze la sua voce"
(Is. 42.2).
Non la piazza dei megafoni, dei megaraduni, piazze di un
solo colore.
Gesù
riprende, fa sue, le parole del rotolo e, da osservatore
attento, non abbagliato dalle coreografie, apre un sospetto
sull'esteriorità, aggiunge un monito: "Quando
pregate, non siate come gli ipocriti, poiché amano
pregare stando nelle strade o negli angoli delle piazze
per farsi vedere dagli uomini" (Mt. 6, 5).
E ancora: "Sul seggio di Mosè si sono seduti
gli scribi e i farisei. Ambiscono i primi posti nei banchetti,
o primi seggi nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze ed
essere chiamati "rabbì" " (Mt 23,
1.6-7).
Non sono queste le piazze che sogna Dio. Anche se le riempissimo
di incensi. Dio non sogna le piazze dell'esibizione, dove
qualcuno si arroga il titolo di maestro.
Quando ciò succede è la rottura dell'immagine
della piazza, l'immagine delle origini che porta con sé
la figura di un convenire spontaneo, libero, aperto, non
rituale, non assediato da rigidità di schemi e programmi.
Se così fosse, la piazza non sarebbe più quella
dei vecchi e dei bambini, la piazza dell'imprevedibile.
"A Milano" -diceva l'Arcivescovo ai giovani- "ci
sono aree dove vale la regola "l'imprevedibile non
è previsto", non deve essere, non ci sta, vogliamo
calcolare tutto. Ma voi avete accettato la regola contraria".
Paradossalmente
più l'urbanistica e la cultura, la politica e le
istituzioni tendono a cancellare le immagini della piazza
dal vissuto della gente, più noi, credenti e non
credenti, dovremmo testardamente inventare luoghi che ne
portino l'immagine.
Là dove sei, là dove vivi la tua avventura
quotidiana, per quanto ti è possibile, disegna occasioni
di vita che potrebbero prendere l'immagine della piazza.
Ci sono progetti ambiziosi: sfuggono alla povertà
delle nostre mani che coprono i pochi centimetri di un foglio
bianco, sfuggono alla pochezza della nostra mente, su cui
grava, secondo la Bibbia, una tenda d'argilla (cfr. Sap.
9, 15).
Vado
in controtendenza. Immagino, per esempio, le case, le nostre.
Entra nell'orizzonte famigliare la piazza? Educhiamo i figli
al convenire, senza paure, senza durezze, senza dogmatismi,
figli che sanno stare con gli altri in un confronto franco
e senza pregiudizi? O i nostri sono i figli dei circoli
riservati, dei cenacoli chiusi, o figli che parlano ma non
sanno ascoltare i sussurri e le voci della piazza?
Vengo a un ambito, a me vicino e quotidiano, quello che
fa la mia passione di ogni giorno, la mia parrocchia.
Potremmo chiederci se il nostro muoverci come parrocchia
prevede aree dello spirito, che potrebbero avere la figura
della piazza, luogo per incontrarsi e dialogare.
A questo orizzonte appartiene l'esperienza della "cattedra
dei non credenti", che l'Arcivescovo da anni ha aperto
nella nostra città e che noi abbiamo timidamente
introdotto nella nostra parrocchia.
Il nome stesso di "cattedra" oggi a qualcuno può
stare stretto, può essere oggetto di qualche fraintendimento.
Non si tratta certo di erigere altre cattedre, ma di dare
ascolto -questa l'intenzione- a chi solitamente nei nostri
ambienti non trova ascolto.
Si tratta di ricreare spazi di confronto con chi porta intuizioni,
pensieri, progetti diversi dai nostri.
Si tratta di ricreare la piazza, luogo in cui, anziché
fare esercitazioni accademiche, si ami, più semplicemente,
raccontare. Raccontare e non declamare.
Perché
nei sogni di Dio non ci sia un buco nero.
don
Angelo
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