PORTE
SEGRETE DELLA NOTTE
All'orizzonte
si era dissolto ogni vapore di nebbia. L'aria ora filtrava
magica, amica, alle spalle, era nei capelli.
Tenevi il respiro, quasi che fiato e parole potessero svegliare
la città, che dall'alto sembrava riposare nella notte.
Tenevi il respiro forse per non sporcare il mistero. I passi
sull'erba. Era notte, bisognava tornare a Milano. La tavola
era ormai sotto le stelle. E le stelle in silenzio a guardare.
I passi sull'erba. E subito senti -è una protezione-
la mano di un amico, che ti copre alle spalle, come a proteggere
i tuoi passi nel buio dei gradini.
Poi, nel silenzio, mentre discendi e gli occhi accarezzano
il lago lontano, la sua voce ti riporta d'improvviso ai
discorsi della cena.
"Ti rendi conto" -mi dice- "che sono passati
duemila anni? E dopo duemila anni noi abbiamo trascorso
la sera a parlare di lui, di Gesù. Respiravi la sua
presenza a questa tavola, sotto questo cielo. È vivo.
Nonostante tutti i tentativi di sequestrarlo nelle chiese
o di imbalsamarlo nei documenti. Lo sentivi vivo. Vivo qui".
Scendiamo lentamente i gradini. La balconata è sulla
città che riposa, custodita nella notte: "non
si addormenterà, non prenderà sonno il custode
d'Israele. Il Signore è il tuo custode, il Signore
come ombra che ti copre" (Salmo 121, 4-5).
Abbiamo
attraversato una porta nella notte. Se vuoi, chiamala porta
del giubileo, o, se vuoi, chiamala porta dell'emozione e
lascia che gli altri rincorrano strani "pass"
che consentano l'ingresso alla porta canonica, quella di
piazza San Pietro.
La tua si chiama porta dell'emozione: abbiamo attraversato
l'emozione, l'emozione di sentirlo vivo sul prato, vivo
sulle strade, le nostre povere strade, meno polverose ma
non meno inquiete di quelle del suo tempo, le strade di
noi che facciamo fatica, di noi che vediamo e non vediamo:
Vicino come la carne
di uno sposo
e atteso nella notte
con fiaccole
che faticano al vento
quasi fossero
sul punto di morire.
Conosco
riunioni in cui si parla di lui e non è presente,
conosco liturgie in cui si celebrano memorie e non sono
memorie, conosco giubilei che sono attraversare porte che
non sono la Porta.
E conosco queste "liturgie" laiche, dove la tavola
non è quella dell'Eucarestia -o lo è?-, ma
la passione per lui, per Gesù di Nazaret, è
tale che non avverti distanza tra la presenza del pane sulla
mensa e la sua presenza, tra la verità del vino che
rallegra il cuore dell'uomo e il brivido di un incantamento
che rimane per lui nei nostri occhi.
Mi domando: perché questo paradosso? Forse perché
a questa tavola Gesù sfugge al pericolo di diventare
un fantasma, forse perché i discorsi della tavola
-anche delle tavole laiche- non consentono il rischio di
stemperare la sua storia reale, dandogli abiti clericali
o religiosi che mai e poi mai ha portato.
"Diciamoci la verità" -diceva Enzo Bianchi-
"Gesù con i peccatori non ha mai sentito fastidio
o sentito dei problemi di comunicazione: li ha sentiti con
i 'religiosi'. Con i sacerdoti che c'erano allora ha solo
avuto parole cattive, i monaci che c'erano allora non li
ha mai nominati tanto gli interessavano poco, e le persone
'giuste' le ha sempre condannate: questo non è discorso
paradossale, questo è Vangelo. Ci piaccia o no".
Come
non capire che il fascino custodito ancora oggi nell'avventura
del Figlio dell'Uomo nasce dalla sua storia reale? I discorsi
della tavola su Gesù a volte sembrano rispettare,
più che quelli ecclesiastici, lo spessore e il fuoco
della storia reale: sono lontani dalla convenzionalità
e dalla ufficialità, che fanno pallido, generico
ed evanescente il volto di Cristo, un volto senza tempo,
senza situazioni di vita, senza passione, il volto che abbiamo
spento in un generico "in quel tempo", con cui
diamo inizio alla lettura liturgica del vangelo della domenica.
Se da un lato mi vado sempre più convincendo che
il vero giubileo è ritornare a Gesù, dall'altro
vedo con sempre maggior chiarezza che non basterà
il ritorno a un generico Gesù, a un Gesù convenzionale,
imbalsamato, ma a quello della storia, un Gesù che
ha sorprendentemente nascosto nella più umile delle
storie il fuoco della divinità.
Mi
ha colpito, fino ad emozionarmi, quello che in questi giorni,
in parrocchia, un giovane iraniano, Giuseppe, ha scritto
in una lettera, in cui rendeva conto del perché chiedesse
il Battesimo:
"Nel mio cuore credo in Gesù Figlio di Dio per
i suoi insegnamenti e per la sua vita
mi è
veramente difficile descriverlo, ma dentro di me vedo quella
vita umile e buona brillare di tutto. Di tutte le cose,
dell'universo, della vita, del passato e del futuro che
ci attende. L'immenso e il sublime riassunti e descritti
dal 'piccolo'
perché la vita di un uomo è
una goccia d'acqua nel grande fiume delle cose e del tempo.
Cristo mi mostra come sentirmi figlio perché racchiude
tutto in una vita, e in gesti e sentimenti semplici, rendendomi
possibile il sentirmi figlio osservando il suo insegnamento".
Sono passati duemila anni e c'è chi si accende a
un volto, a una storia, a una memoria: sconvolgente e insieme
affascinante questa attrazione che travalica sovrastrutture
e appartenenze.
In
una sua pagina don Michele Do, un prete amico di montagna,
di quelli che non selezionano gli ingressi, ma hanno fin
negli occhi la luce dei monti, scrive:
"L'Evangelo trova un consenso profondo nel cuore dell'uomo.
La sua forza di seduzione è grande in ogni spirito
nobile, se pur non credente. Quanti amici segreti ha in
fondo Gesù di Nazaret: egli è il simbolo di
tutto ciò che la vita ha di più alto e puro.
Pavese ci interpreta tutti quando annota nel suo diario:
"Si vorrebbe godere sempre di quello sgorgo di divinità.
Forse è tutto qui: in questo tremito del 'se fosse
vero!'. Se davvero fosse vero!".
Ma quando il Cristianesimo si fa Chiesa, si spegne questo
tremito ed insorgono resistenze, riserve, rivolte. E insorgono
in spiriti ricchi di sensibilità religiosa. La vicenda
spirituale di Simone Weil, fatta di appassionato amore a
Cristo e di ostinato rifiuto della Chiesa, ha valore di
simbolo.
Non sono pochi quelli che conducono una vita di ispirazione
cristiana ai margini della Chiesa, difendendosene o ignorandola,
sentendola più come ostacolo che come aiuto nel loro
cammino spirituale".
È
il riconoscimento di una sincerità nei confronti
di Cristo, una sincerità che, al dire di qualcuno,
non è sempre così facile trovare tra i cattolici.
Proprio in questi giorni su "Avvenire", Luca Doninelli,
parlando dello spettacolo "Lu santo jullare Françesco"
scriveva:
"Non possiamo -oggi- dimenticare un semplice fatto
e cioè che Dario Fo è uno tra i pochi scrittori
italiani (e non) a parlare ancora di Gesù Cristo,
ad amarlo e rispettarlo, con una sincerità -am-mantata
magari di affermazioni quantomeno opinabili, ma sincerità
comunque- difficilmente rintracciabile oggi in uno scrittore
anche cattolico o sedicente tale".
Mi
capita spesso di soffermarmi a pensare che nessun libro
ufficiale del Giubileo offrirà, tra i possibili itinerari
dell'Anno Santo, la frequentazione di uomini e donne che,
come Simone Weil, rimangono con il loro segreto sulla soglia;
nessun libro ufficiale del Giubileo offrirà, tra
i possibili itinerari dell'Anno Santo, i discorsi a una
tavola sotto le stelle, mentre la città riposa nella
notte, tanto più se la tavola ha volti di amici,
poco adusi ai cerimoniali ecclesiastici.
Ma chi è attento a ciò che accade nel cuore
non potrà non provare trasalimento e gratitudine
a Dio per queste porte invisibili, porte dell'emozione,
porte delle nostre notti, porte segrete.
C'è chi le passa silenziosamente, mentre la città
riposa in un baluginare di piccole luci.
don
Angelo
|