NON
POSSIAMO PERMETTERCI IL LUSSO
Cara
Anna,
sei ripartita per l'Inghilterra. E non ti ho nemmeno vista.
Di te mi è rimasto il piccolo vaso di legno africano,
i suoi intagli curiosi; accarezzandolo, sento le mani di
chi l'ha incavato.
Di te mi è rimasto anche, soprattutto, questo biglietto:
sento l'emozione che te l'ha dettato, leggo negli spazi
bianchi tra parola e parola.
Ti ho chiesto al telefono se ti andava o no che la pubblicassi.
Hai detto di sì.
Il tuo scritto infatti incrocia, quasi ad un immaginario
crocevia, i miei pensieri: pensieri che, da un po' di tempo
a questa parte, stazionano a lungo nella mente e nel cuore.
Puoi dimenticarli, ma poi te li ritrovi, un po' come i barboni
della nostra città, che se ne vanno il mattino cacciati
dalle luci dell'alba e poi ritornano immancabilmente la
sera, perché hanno scelto come rifugio libero, come
riparo, la pensilina stretta della chiesa.
La
lettera dice:
Caro don Angelo,
tramite altri ti mando un piccolo ricordo. Me l'ha dato
la mia Jean, un'africana del Malawi, che mi aiuta a fare
i lavori di casa. Ha una bella forma ed è liscio
al tatto. Spero ti ricordi noi.
Mi ha rattristato molto non avere battezzato il mio piccolo
Jacopo; sono venuta di corsa a Messa da te una sera, e con
sorpresa ho visto che la tua chiesa era bianca e luminosa,
ma accogliente e non fredda. Io ero ancora rimasta all'immagine
"vecchia", blu sfumato!
Forse però, varicella a parte (anche Paolo l'ha presa,
poveretto!), non c'era "tempo" per questo battesimo.
Ma in che mondo viviamo? Sono stanca, non solo perché
non mi sono per nulla riposata in queste vacanze di Natale,
ma perché non si riesce a fermarsi, a "staccare",
a far silenzio, a vivere più semplicemente, più
veramente.
Perché? Ho voglia di essenzialità, di giornate
fondate sui gesti e sui tempi che contano. Non possiamo
permetterci il lusso di seppellire il cuore e la mente sotto
una montagna di "inutilità" (non credo
che esista questo termine, ma mi piaceva).
Con tanto affetto
Anna
Hai
incrociato, Anna, i miei pensieri e insieme, anche la mia
paura e anche la mia tristezza.
Il problema che sollevi è enorme. Non so se ce ne
rendiamo conto. Non sembra: i documenti, anche quelli ecclesiastici,
continuano imperterriti a inseguire i massimi sistemi, quasi
non avessero occhi per intuire dove nasce l'odierno disagio,
questo malessere diffuso di vivere.
Sappiamo -me lo chiedo- leggere e misurare la gravità
di questa situazione diffusa? Sappiamo intuire quale prezzo
saremo costretti a pagare, se non porremo urgentemente rimedio?
Sapremo correre in tempo ai ripari o dovremo limitarci a
contare a occhi vuoti le macerie, perché l'allarme
non è stato dato o è stato incoscientemente
sottovalutato?
In pericolo è la relazione. Soffre la relazione.
Scoppia la relazione.
Ho passato mesi -questi- a riempirmi di tristezza per matrimoni
che si trovavano improvvisamente dissanguati, per relazioni
che si scoprono sorprendentemente svuotate: il guscio non
contiene più niente, il vaso è fessurato,
il profumo se n'è andato. È rimasta la fatica,
niente più profumo: volatilizzato! Ci si guarda con
occhi vuoti.
Sono riflessioni che mi toccò di sfiorare tempo fa
nell'omelia della Messa, lo scorso Natale, quando il pensiero
correva a un registro, quello di Betlemme, dove Giuseppe
e Maria dovettero convenire per farsi censire.
Una
civiltà di numeri, non di persone, una società
che ci tratta come numeri, perché ciò che
conta è un'altra cosa, non sei tu.
E tutti escono al mattino, tutti a farsi registrare, nel
registro della produzione: bisogna produrre. È il
grande censimento. Se non produci, non sei nel censimento,
non sei nessuno.
Io vedo -forse sbaglio- un pericolo: crescono, si allungano
le ore dell'impegno nelle cose. Ti prosciugano.
E dov'è la sorpresa per la tua donna, per il tuo
uomo, per il tuo figlio? Diventiamo tutti numero, senza
sentimenti.
È in pericolo la relazione. In grave pericolo. Facciamo
che non sia troppo tardi.
Succede,
quasi senza avvedersene, un indurimento. A tal punto che
quando una moglie o un marito, un compagno o una compagna,
un figlio o una figlia ti dicono un disagio per il silenzio
che si è fatto nella relazione, per la mancanza di
dialogo, spesso la reazione dall'altra parte è di
meraviglia, come se l'altro esagerasse o pretendesse, che
so io, la luna nel secchio. E poi -si dice- dopo tutto noi
parliamo.
Ma è come se fosse silenzio, perché a parlare
è la banalità.
Nel
suo ultimo romanzo "La signora dei porci" Laura
Pariani, raccontando della Scrittrice, dice: "
certo che su certi temi è difficile intendersi con
lei. Ma su che cosa d'altronde è possibile farlo
a questo mondo? Su una compravendita, sull'orario dei treni,
su un'inchiesta televisiva, al massimo su queste banalità
e mica sempre. Per il resto silenzio" (pag. 110).
Ma è questo silenzio, il silenzio della banalità,
il silenzio del nulla, che crea scompensi, vuoto, assenza
nel cuore.
Forse stiamo dimenticando che anni fa, molti anni fa, ai
tempi dei nostri nonni e delle nostre nonne, di due che
avevano iniziato una relazione si diceva: "quei due
si parlano".
E non sarà che la solitudine ritorna prepotente nel
cuore dell'uomo, della donna quando l'esperienza del "parlarsi"
si degrada a esperienza del "parlare", magari
delle banalità della vita?
Non
è chi non veda poi come il tempo del "parlarsi"
non possa essere ristretto nel tempo dell'orologio, non
è il tempo accelerato: ci si parla con gli occhi,
con la tenerezza dei gesti, con il racconto dei sogni.
Ma il tempo del parlarsi, il tempo dato alla relazione,
va oggi difeso da un'aggressione sotterranea, strisciante,
proprio perché è un tempo "debole"
e, come spesso succede a chi è debole, subisce la
prepotenza dei forti, dei tempi forti.
Non sarà -me lo chiedo- che oggi la relazione soffra
perché alcuni tempi sono diventati invadenti, prepotenti
al punto di soffocare gli altri?
Il tempo del lavoro e non il tempo del riposo, il tempo
della fretta e non il tempo del godimento, il tempo del
consumo e non il tempo della custodia, il tempo dell'esteriorità
e non il tempo dell'anima, il tempo dell'uomo e non il tempo
di Dio, il tempo delle parole e non il tempo degli sguardi,
il tempo del parlare e non il tempo dell'ascoltare.
Certo
sarebbe ingenuo oggi inseguire nel sogno giornate dai ritmi
pacati, lenti, distesi, quelli che connotavano la civiltà
contadina.
Sarebbe altrettanto ingenuo correre in avanti e immaginare
per la relazione spazi improbabili che mai e poi mai ci
sarà possibile ritagliare.
Ripercorrendo quest'anno nel Vangelo di Marco il racconto
della giornata di Gesù a Cafarnao, mi percorse come
il brivido di un'emozione: leggendo mi sentivo in qualche
misura riconciliato con le mie giornate piene, affollate,
senza sosta. Anche quella di Gesù giornata piena,
affollata, senza sosta. Eppure di lui Marco scrive: "
si alzò quando ancora era buio e uscito di casa,
si ritirò in un luogo deserto e là pregava".
La relazione con Dio, così come la relazione con
la creatura che tu ami, ha bisogno di silenzio, d'intimità,
di svelamento dell'uno all'altro, di accoglienza fisica
e spirituale, di custodia del volto dell'altro nelle tue
mani tenere, di affidamento.
È a dir poco, affascinante vedere come Gesù
dentro giornate piene, affollate, senza sosta, inventasse
luoghi e momenti di silenzio, di preghiera, il faccia a
faccia. Era per lui il segreto per una custodia della relazione.
Custodisci, dà tempo alla relazione, se non vuoi
ritrovarti con un guscio che non contiene più niente,
un bozzolo abitato da una crisalide purtroppo morta.
Ma
tu, Anna, a questo punto riapri il discorso e lo dilati
verso nuovi interrogativi. Ci spingi a una verifica delle
nostre "corse" quotidiane.
Accanto a corse cui non possiamo sfuggire, non ce ne sono
forse altre -quante?- che sono semplicemente indotte dalla
montagna -così tu la chiami- delle nostre inutilità?
"Perché" -ti chiedi- "non si riesce
a staccare, a fare silenzio, a vivere più semplicemente,
più veramente?".
Forse perché è venuto meno lo spazio del pensare,
dell'interrogarci.
Vedo il volto, già stanco al mattino, il passo concitato
delle mamme che portano i bambini, prima del lavoro, alla
scuola materna, e a volte penso che è una fatica
cui non si può sfuggire. Poi penso alla corsa delle
mamme che pilotano i loro ragazzi da una scuola di judo
a un'altra di lingue e un'altra ancora di nuoto e poi il
torneo di tennis
e poi il catechismo!
Tutte cose buone, ma tutte necessarie? Non sarà bene
"staccare" -come dici tu- e chiederci che cosa
viene prima e che cosa viene dopo, che cosa conta di più
e che cosa conta di meno.
Una vita meno affollata, meno convulsa non ci permetterà
forse di sorridere qualche volta di più, di accarezzarci
con gli occhi, di ascoltarci senza l'assillo di ciò
che verrà dopo, di respirare la bellezza che è
sui volti o di inseguire il brivido che è negli occhi?
E se scrivessimo sulle pareti delle nostre case, delle nostre
chiese, nelle sale delle nostre riunioni, le tue parole,
per me folgoranti: "Non possiamo permetterci il lusso
di seppellire il cuore e la mente sotto una montagna di
inutilità"?
Un forte abbraccio
don
Angelo
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