IL
VANGELO DELLA FAMIGLIA
commentando Luca 2,41-52
Anche
questa sera si fa fatica a lasciarci. Ed è ormai
notte.
Oggi erano di turno i fidanzati. L'incontro si è
protratto al di là di ogni previsione, senza che
ce ne accorgessimo.
Finisce l'incontro e inizia l'indugiare. L'indugiare sta
diventando un rito: indugiano le parole, indugiano gli sguardi.
Ci sarebbe da insospettirsi - mi dico - se avvenisse il
contrario: se la gente schizzasse via appena concludi, come
in quelle Messe in cui, quando il prete benedice, qualcuno
è già alle porte della chiesa e finisce per
essere benedetto alle spalle.
Ora è notte. Tutto tace nella casa: gli ultimi se
ne sono andati e tu passi a spegnere le luci.
Socchiudi il cancello e per un attimo rimani a contemplare
la casa: le finestre sono spente, come occhi chiusi. Dorme
la casa; veglia, chissà in quale angolo, insonne,
l'angelo della notte.
Il silenzio è rotto, parla e arde questa pagina di
Vangelo che domani mi toccherà commentare all'omelia,
nella festa della Sacra Famiglia: l'episodio è noto
e passa sotto il titolo di "smarrimento e ritrovamento
del fanciullo Gesù".
QUASI
PANE PER OGGI
Più
indugio sulle parole, più rimango affascinato dalla
ricchezza inesauribile del testo.
Ritorna alla memoria una citazione di Gregorio Magno che
mi capitò di leggere in una premessa ad un libro
del Cardinale Martini:
"Oggi comprendiamo ciò che ieri non conoscevamo,
domani riusciremo a comprendere ciò che oggi ancora
non conosciamo, perché Dio nel suo amore ha disposto
che veniamo nutriti ogni giorno; ogni giorno egli ci porge
il pane della sua parola".
L'episodio di Gesù dodicenne al tempio quale messaggio
custodirà per le nostre famiglie, chiamate a vivere
in contesti apparentemente così diversi? Quale pane
per oggi?
UN TITOLO SBAGLIATO
Rileggendo
il testo, mi viene spontaneo pensare come possa succedere
che ad un racconto si dia un titolo meno esatto o addirittura
sbagliato.
Tale sembra appunto essere il titolo che la lettura religiosa
degli anni passati soleva dare a questo episodio: smarrimento
e ritrovamento.
Se noi leggessimo attentamente la pagina di Luca, ci accorgeremmo
che di smarrimento non si tratta: Gesù non si è
smarrito, ha scelto deliberatamente di rimanere a Gerusalemme.
Vorrei anche aggiungere che la cadenza "smarrito-ritrovato"
- lo si voglia o no - può generare l'equivoco di
un caso chiuso: il problema è risolto, si ritorna
a casa, il fanciullo è sottomesso. Tutto come prima.
Ma una lettura anche veloce del testo ti induce a pensare
che, se in apparenza tutto sembra risolto, in realtà
non è vero che le cose ritornano come prima.
Il fatto stesso che Maria, la madre, vada rimuginando parole
e gesti di quel figlio nel suo cuore dice ampiamente come
il caso sia tutt'altro che chiuso.
Siamo messi così alla ricerca di un senso più
profondo.
ANDARE,
VERBO DEL DESIDERIO
I
genitori di Gesù - è scritto - si recavano
tutti gli anni a Gerusalemme.
C'è questo "andare", questo muoversi della
famiglia, dalla casa al tempio. Questi ritmi della fede
segnati da una continuità: tutti gli anni.
Non sono certo gli unici passi della fede quelli che portano
dalla casa alla chiesa: passi della fede sono anche quelli
che ti portano a visitare con amore le case degli uomini,
i passi, per esempio, che hanno condotto Maria alla casa
dell'anziana cugina in attesa di un figlio.
Non sono gli unici passi della fede, ma sono pur sempre
quelli espliciti: le nostre famiglie ci hanno insegnato
questi passi, questo muoversi, questo andare ogni settimana.
Mi piace pensare che "andare" è il verbo
del desiderio. E dunque le nostre famiglie ci hanno educato
al desiderio; a desiderare qualcosa di grande, a cercare
ciò che sta oltre.
A
VEDERE IL VOLTO DI DIO
Torna
alla mente e al cuore la storia di Samuele: dei suoi genitori
è scritto che lo avrebbero condotto, fanciullo, al
tempio "a vedere il volto di Dio" e là
sarebbe rimasto per sempre.
"A vedere il volto di Dio!": è bellissimo.
Al tempio non a compiere un precetto, bensì a vedere
il volto di Dio: c'è da esserne affascinati e rimanere
per sempre.
Eppure Gesù ritorna a casa. Anche noi ritorniamo.
Ma dopo aver visto il volto di Dio. Visto - o forse solo
intuito - come da una soglia, la soglia delle scritture,
la soglia del pane spezzato.
Di qui l'importanza che non venga meno nelle generazioni
questo andare. Penso ai fidanzati che incontriamo in queste
sere e nel cuore mi vado augurando che possano iscrivere
nella loro nuova famiglia questo movimento, questo ritmo
immagine del desiderio, questo andare ogni settimana "
a vedere il volto di Dio".
FIGLIO DEL PRECETTO
"Il
fanciullo Gesù aveva dodici anni..": alla vigilia
dunque di quel tredicesimo anno in cui per i ragazzi ebrei
avveniva quasi una consacrazione alla legge. La cerimonia
era detta "Barmiswah". Significa "Figlio
del precetto".
Diventi figlio del precetto. Certo rimangono, non vengono
cancellati, i legami naturali, rimani figlio dei tuoi genitori
- anche Gesù lo rimane -. Ma è come se, in
qualche misura, venisse a perdere importanza il riferimento
alla loro mediazione, perché a muovere la tua vita
è ora la volontà di un Altro, di un altro
Padre, che è nei cieli.
E' questo il senso profondo dell'episodio di Luca: Gesù
ha preso sul serio quell'andare al tempio a vedere il volto
di Dio. E' diventato figlio del precetto.
C'è uno stacco sull'episodio, quasi una contrapposizione
di verbi: andare
rimanere. Tutti riprendono la via
del ritorno: andare e ritornare come si è sempre
fatto, nel ritmo cioè delle cose di sempre: le cose
scontate, le cose ovvie, quasi non si immaginasse qualcosa
di diverso.
E infatti dove si va a cercare Gesù? E' chiaro, nella
carovana, tra i parenti e conoscenti. E' ovvio che sarà
là. Non può essere che là.
IL
FIGLIO E' ALTROVE
Il
racconto di Luca sembra metterci in guardia da questo pericolo
sempre incombente, il pericolo di pensare che un figlio
o una figlia - ma anche un padre o una madre - siano nei
luoghi ovvi: dove deve essere se non nella casa o in quello
che pensiamo noi? E invece il figlio è altrove.
E come dovremmo augurarci, anche se faticoso, che un figlio
sia "altrove". Se questo "altrove",
in cui è un figlio, è l' "altrove"
di Dio.
"Non sapevate che io devo essere nelle cose del Padre
mio?". La sua testa è là, nel precetto
di Dio.
Dopo tutto - come non ricordarcelo? - ciò che conta
è la testa, è il cuore: dove abbiamo la testa,
dove abbiamo il cuore.
DOVE
SEI CON LA TESTA?
Sì,
è vero, questo figlio ritorna a casa, è sottomesso;
ma il suo cuore, la sua testa è là, nelle
cose di Dio, nel progetto di Dio.
"Dove sei con la testa?": lo chiedi al tuo ragazzo,
alla tua ragazza, al tuo marito, alla tua moglie, ai tuoi
amici.
E augurarci che tutti noi - e non solo i figli - siamo sempre
più "via", con la testa. Ma non nelle cose
superficiali: le cose banali , le cose di un momento, i
progetti di corto respiro; ma nelle cose grandi di Dio,
nelle pagine luminose del Vangelo, nei sogni infiniti di
Dio.
Quasi "testardamente" nelle cose di Dio: quel
verbo rimase significa anche "resistette", tenne
duro, nelle cose di Dio!
E' il massimo che un padre o una madre potrebbe sognare
per un figli: è diventato figlio del precetto, un
appassionato della luce e dei sentieri del Vangelo.
Il ritorno a casa allora è diverso. Se la testa è
nelle cose di Dio, c'è un'obbedienza , ma non è
cieca, non è per opportunismo né per servilismo.
C'è un'autorità, ma non dispone arbitrariamente
delle persone, non è autoritarismo né despotismo.
E
PARLARE PER DOMANDE
Questo
vangelo è come una miniera: lo scavo - il mio - sarà
sempre e solo un povero inizio. Ma la notte è fonda
e il mio commento domani non dovrà abusare, oltre
misura, della pazienza di chi mi ascolta .
Una cosa però vorrei alla fine sottolineare: ciò
che forse più mi ha colpito quest'anno rileggendo
il brano di Luca. La famiglia di Nazareth è sorpresa
dall'evangelista in un momento di crisi. Ma come reagisce
nel momento del disagio?
Madre e figlio si parlano. Ma non parlano per asserzioni
categoriche, parlano per domande.
Le definizioni, le asserzioni categoriche, poco o tanto,
chiudono e fanno violenza: "Le cose sono così
e stanno così!".
La domanda apre. Ci si interroga per capire.
"Perché ci hai fatto questo?": la madre
vorrebbe capire. E il figlio, a sua volta, pone delle domande:
"Perché mi cercavate? Non sapevate
?".
Interrogare è il verbo di chi cerca di capire. Se
diventasse sempre più il verbo delle nostre famiglie?
Non la fretta o la pretesa di tirare delle conclusioni:
e chi ci sta, ci sta. Così rompe.
Ma la pazienza di interrogare: interrogare con amore, per
capire. Così ci si ritrova
don
Angelo
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