MESCOLARE
LA LUCE E LA TERRA
Resiste.
Resiste all'ultimo vento, quello gelido che ha invaso di
foglie le strade della mia città. I marciapiedi,
i nostri, così avari di spazio, portano il segno
dell'impazzito mulinare delle foglie sull'asfalto.
Resiste con poche foglie all'ultimo vento, quasi una sfida,
il mandorlo, all'ingresso della casa. Quasi a dar prova
della verità di chi lo dice ultimo albero a deporre
le foglie e il primo a colorirsi di fiori.
Ma i rami ora spogli svelano qua e là, a chi li osserva
con tenerezza, piccoli rigonfiamenti, i futuri germogli:
il mandorlo non dorme, vigila, come fa Dio. Anche nelle
notti imbrividite di dicembre.
I rami, ora neri, del mandorlo mi raccontano, ogni volta
che rientro, l'Avvento, il tempo in cui Dio vigila. Presto
sarà Natale e dai rami squassati dal vento, germoglierà
un fiore.
Dio vigila, non temere.
Sono
passati duemila anni, e anche più, da quella Nascita.
E ancora, dopo duemila anni, non è esaurito lo stupore:
stupore che dal legno rinsecchito, squassato dal vento,
da una storia poco onorata di padri, come noi razza impura,
sia germogliato il fiore di giustizia, dalle nostre genealogie
senza meriti e purezze sia nato un salvatore.
Il cielo è sceso in terra e vi ha messo radici.
Il cielo è sceso in terra: devono aver pensato in
cuor loro i pastori in una notte illuminata, ma per poco,
da un volo di angeli.
Si sono abbassati i cieli. È notte di congiungimento.
Ora l'emozione ti prende ogni volta che calchi, tenendo
il respiro, le strade della Terra Santa.
Gli occhi perduti
nel rosseggiare dolce e silente
di assorti orizzonti
interroghi l'incendio dei cieli
quasi tinti di brividi
di tenerezza
che fanno sospeso il cuore
e sfiori l'inatteso
miracolo di un Dio
che qui ha inclinato i suoi cieli
fino a baciare la terra.
È congiungimento, la luce si è mescolata alla
terra.
Mi
sto riconciliando -e provo sorpresa- con i presepi, affollati
di statuine multicolori, di varia umanità.
Mi rimane -tu lo sai- inscalfita dal tempo una preferenza:
quella per i presepi che odorano povertà dal muschio
antico, odorano silenzi e assenze, notti senza ghirlande
e senza luci, grotte senza clamori di visite e senza doni.
Unico dono forse nella notte il bagliore di fuoco negli
occhi dei pastori, venuti a riconoscere un Dio senza troni,
avvolto, come un bambino dei loro, in fasce ruvide, in una
mangiatoia.
Pur amando il presepe silenzioso delle origini, confesso,
comincia a non dispiacermi questa varia umanità,
che altri presepi vanno radunando intorno al Bambino, una
umanità senza confini: il maniscalco e il venditore
di fichi, la ballerina e il bambino che fa pipì,
il pizzaiolo e l'ortolano, lo zampognaro e il venditore
di angurie
una umanità in tutte le sue forme,
belle o brutte che siano, onorate o meno, quasi affratellate
da un evento: l'accadere del tempo di Dio dentro il consumarsi
del tempo dell'uomo; un inizio, un nuovo inizio, dall'alto,
dentro il monotono e stanco scorrere dei giorni.
"Di
questo variegato campionario di umanità" -scrive
Bruno Forte- "il salvatore è Lui: questo bambino
povero e indifeso, che giace contento nel presepe, fra Maria
e Giuseppe, l'asinello e il bue".
Ti dirò che a volte mi sfiora il pensiero che il
presepe della coralità segni quasi una rivalsa: la
rivalsa del popolo di Dio contro ogni tentativo di sequestrare
questa Nascita per pochi, per i circoli raffinati, quelli
teologicamente sicuri.
Il mistero deborda. Ci siamo tutti: dice il presepe della
coralità. Anche tu un giorno sei stato a vedere.
A vedere il Figlio di Dio, non su un trono, come ci saremmo
aspettati, ma nella mangiatoia dei pastori. Potrebbe starci
anche la tua statuina.
Ma davanti agli uomini e alle donne raffigurati negli antichi
presepi con i loro variegati mestieri nasce un altro sospetto:
che il desiderio fosse che la luce di quella Nascita potesse
illuminare non solo i volti, ma anche le arti e i mestieri.
Purtroppo -così mi viene fatto di pensare- le arti
e i mestieri delle figurine dei presepi sono per lo più
arti e mestieri di una volta. Mancano le professioni di
un mondo che oggi sta sotto i nostri occhi.
E forse non sarebbe stato così inutile avvicinare
alla luce di quel Bambino arti e mestieri dei nostri giorni.
Avremmo evitato -chissà!- storie di tangenti e di
corruzione.
Perché accada il Natale, quello vero, la luce deve
mescolarsi alla terra, come il lievito nella pasta tra le
mani di una donna.
Natale:
la luce si mescola alla terra. La terra così com'è,
le nostre zolle, non importa se nere e indurite.
Terra nera, apparentemente indurita, ma più tenera
del mio cuore, la casa al quarto piano, una delle tante
cui arrivi con il fiato grosso e suoni in questo lungo avvento
ambrosiano. Per una benedizione: così si dice.
La donna ha il volto smunto, come di chi ha sofferto l'inferno,
l'inferno per mesi, l'inferno della vita. "Da mesi"
-ti dice- "ho rinunciato a pregare. Ho rinunciato a
Dio. Nessuno ascolta".
Gli occhi sono di acqua, come liquefatti. Mesi fa ancora
brillavano dentro, di tanto in tanto, per un soprassalto,
un sussulto. Rimaneva non spenta la voglia di lottare.
È Natale, pensi. E gli occhi, i tuoi, nella preghiera
si impigliano ai soffitti scrostati, ai muri anneriti dalla
sventura e dalla miseria. Quale Natale là dove dall'alto
piovono i calcinacci?
Ora so che questo Natale porta i tuoi occhi disperati, la
tua accusa a Dio, al Dio onnipotente dei nostri catechismi,
al Dio dei miracoli dei nostri santuari. Forse -e lo dico
sottovoce, con gli occhi- non al Dio del presepe.
Non c'è risposta al lamento. C'è una luce,
ma è sobria, silenziosa: è nel Dio che è
debole e non fa miracoli, il Dio dei nostri presepi.
Lo guardo: è povero, è indifeso. Non ci sono
risposte. Ma senti che è con te nella tua "distretta",
nella tua sofferenza.
Così Dietrich Bonhoeffer, dal carcere di Tegel, l'8
luglio 1944:
Uomini
vanno a Dio nella distretta loro;
piangono aiuto, invocano felicità e pane
salvezza da malattia, colpa e morte.
Così fan tutti, tutti: cristiani e pagani.
Uomini
vanno a Dio nella distretta sua;
lo trovano povero, umiliato, senza tetto o pane
lo vedono smunto da peccati,
debolezza e morte.
I cristiani stanno accostati a Dio
nella sua sofferenza.
A
tutti gli uomini va Dio nella distretta loro;
sazia il corpo e l'anima con il suo pane
muore di morte di croce per cristiani e pagani
e ad ambedue perdona.
Tocca
anche a noi mescolare la luce alla terra. La casa è
a un piano ancora più alto, ottavo o nono piano,
al momento non ricordo. E ci arrivi senza il fiato in gola.
Ci arrivi con l'ascensore.
I soffitti non sono scrostati e le pareti soffuse di luce,
la luce che filtra dal terrazzo.
Casa di amici, ormai avanti negli anni. E il paradosso delle
domande giovani! Domande giovani dentro il peso degli anni,
le domande che oggi forse non osano più nemmeno i
più giovani.
Lei dice: "La nostra casa ora si è fatta grande.
E ci sono due letti vuoti. Perché non prendo due
disperati, due di quelli che dormono fuori, la notte, per
le strade?".
Tento una risposta. Ma mi ascolto: mi impiglio nelle parole.
E la domanda pesa sul cuore di questa generazione.
Non siamo Francesco d'Assisi. Ma qualche risposta -e che
non sia solo di parole- va insieme ricercata. Il bambino
del presepe non parla. Sembra dire che il Natale non va
raccontato a parole. Sembra dire: "Torna indietro".
Arrivati
alla soglia del mistero, la Voce, secondo un racconto dei
chassidim, i saggi ebrei dispersi nell'esilio, dice: "Torna
indietro".
"Un uomo ispirato da Dio" -dice il racconto- "peregrinò
nel grande vuoto, fino a raggiungere la porta del mistero.
Arrivato, bussò. "Che cerchi?", gli chiese
la Voce. Rispose: "Ho annunziato la Tua Parola alla
sordità dei morenti e non mi hanno ascoltato. Perciò
sono venuto qui, perché Tu mi ascolti e mi risponda".
"Torna indietro", gli disse la Voce, "qui
non c'è ascolto: ho nascosto il mio ascolto nella
sordità dei morenti"".
È
Natale: sei arrivato al presepio, la Voce dice: "Torna
indietro".
don
Angelo
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