"GUARDATE
A LUI E SARETE RAGGIANTI"
In queste ultime settimane che portano, tra sole vento e
pioggia, alla notte di Pasqua, non finisce di rimormorare
dentro, come un'acqua chiara, questo invito del Salmo: "Guardate
a lui e sarete raggianti. Non saranno confusi i vostri volti"
(Sal. 33, 6).
"Sarete raggianti
". Nella memoria, la memoria
del cuore, si accendono d'istinto tracce di volti raggianti,
luminosità incancellate. Un'emozione cui si accompagna,
indissolubile, l'altra: la percezione che quella luce in
loro irraggiasse dal di dentro.
L'irraggiamento,
quello vero, è dal di dentro o, se vuoi, si origina
da ciò che i tuoi occhi amano contemplare: dimmi
chi guardi e ti dirò chi sei.
Se i tuoi occhi fissano il fuoco che arde, nei tuoi occhi
troverò il brivido del fuoco, ma se i tuoi occhi
navigano le terre del nulla, mi prende la paura di incrociare
in te lande grigie e notti spente.
Oggi si fa un grande uso di riflettori, oggi, più
di ieri, si gettano fiumane di luce sui volti, nell'illusione
di renderli raggianti dall'esterno.
È operazione di rozza ingenuità: quei volti
possono anche apparire in continuazione dagli schermi televisivi,
da riviste e giornali, dai muri della città, ma rimangono
di un vuoto desolante, case disabitate, volti spenti, al
di là dell'abilità del trucco. Occhi che fissano,
perduti, il vuoto, non guardano dentro né si illuminano
dal di dentro.
"Guardate
a lui e sarete raggianti".
C'è tempo ancora per farlo? La vita è quella
che è. Ma dentro una vita, che è quella che
è, viene disegnata paradossalmente una settimana
"santa", santa non certo perché noi siamo
santi o perché la nostra sarà in quei giorni
una vita santa, ma santa per quel guardare a lui, un guardare
che ci farà santi.
"Guardate a Lui": l'invito è a perdere
un po' meno tempo per gli idoli vuoti, per i volti segnati
pesantemente dal trucco.
"Volgeranno
lo sguardo a colui che hanno trafitto" (Gv 19,37):
è scritto a conclusione del racconto della Passione
nel Vangelo di Giovanni, riprendendo una parola più
antica, del profeta Zaccaria, custodita nella Scrittura
Sacra.
Gesù aveva portato un giorno sul monte Pietro, Giacomo
e Giovanni: guarda caso, tra i discepoli quelli che di lì
a poco avrebbe portato su un altro monte, il monte degli
Ulivi, quelli che nell'agonia dell'Orto avrebbero letto,
più da vicino, sul suo volto la paura, l'angoscia,
la tristezza di morire.
Li portò sul monte della Trasfigurazione perché,
forti della visione, nei giorni a seguire non girassero
via lo sguardo dal Pastore "bello", il pastore
percosso, umiliato, crocifisso, morto nella pozza di un
grido.
Non senza stupore, sul monte della Trasfigurazione, proprio
in quel fulgore di luce che rasentava la bellezza -"è
bello per noi stare qui"- i tre discepoli erano stati
fatti testimoni del conversare di Mosè, Elia e Gesù,
ed era un conversare di morte, una morte annunciata, la
morte del Figlio dell'uomo, in Gerusalemme, la città
che uccide i profeti.
C'è
sempre il pericolo di cercare Dio nei luoghi sbagliati.
"Facciamo qui tre tende
": dicono i discepoli.
Ma Gesù invita a scendere. "Tenda di Dio"
-sembra dire Gesù- "sarà la Croce".
Là la rivelazione, là la bellezza.
I discepoli non avrebbero dovuto dimenticare che la luce
abita il gesto della donazione, ogni gesto di donazione,
e che il massimo della luce dimora nel gesto di chi dà
la vita per i suoi amici.
Non avrebbero dovuto dimenticare. Purtroppo dimenticarono,
come succede a noi. Presto.
È
interessante proseguire, senza fermarsi, nella lettura del
capitolo nono di Luca, capitolo della Trasfigurazione, proseguire
arrivando alla fine del capitolo. Il prosieguo potrebbe
essere intitolato: la lezione dimenticata. Il "che
bello che un Dio doni la vita per gli umani" è
presto cancellato dalla memoria.
Gli aneliti sembrano puntare in altre direzioni: i tre episodi
che seguono nel vangelo lo confermano, confermano uno spirito
diverso.
C'è dapprima il rammarico dei discepoli perché
non gli riesce di fare miracoli sull'indemoniato, quasi
uno scacco al loro protagonismo, uno scacco che brucia.
"Guardate a lui" o "guardate a noi"?
Segue l'episodio di una discussione non da poco, sorta tra
i discepoli su "chi fosse il più grande tra
di loro", una questione di posti, proprio quando il
Figlio dell'uomo sta loro insegnando che il suo posto, il
vero innalzamento è la Croce.
E infine l'intolleranza, la gelosia, perché, anche
al di là della loro cerchia, qualcuno scaccia demoni
nel nome di Gesù: il nome di Gesù se l'erano
appiccicato come un fiore all'occhiello sul loro gruppo:
è loro esclusiva, come il marchio del Giubileo, in
esclusiva.
Che
brutto spettacolo. Qui non abita la bellezza: come potresti,
come, davanti ai rampanti, agli arrivisti, agli intolleranti
dire: "ma che bello!". Non ti illuminano il volto.
Davanti a un Dio che si dona sulla Croce, sì, ti
si illumina il volto, davanti alle donne e agli uomini che
si donano il tuo volto si fa raggiante come per una buona
notizia, un evangelo.
Invitando
a guardare la Croce come luogo di irraggiamento, non sarà
inutile precisare, a scanso di persistenti fraintendimenti,
che non è la Croce in sé da amare, ma il gesto
di donazione che la illumina.
Mi ritorna al cuore non senza emozione il passaggio di una
preghiera appassionata che Don Germano Pattaro, teologo
veneziano, rivolse a Gesù dentro un'Eucarestia celebrata
nella casa, lui già segnato duramente e irrimediabilmente
dal male: "Fa che ti tenga in mano" -disse- "solo
Crocifisso. Non amo però la Croce, amo il tuo amore
sulla Croce".
L'espressione è folgorante: Gesù non ha mai
insegnato che è la sofferenza in se stessa da amare.
Anzi Gesù è passato per le nostre strade non
idealizzando le ferite, ma cercando di sanare le ferite,
non celebrando il peso o la drammaticità della vita,
ma insegnando ad alleggerire da un eccesso di peso le spalle
degli uomini e delle donne di tutti i tempi.
"Dio non è placato dal sangue versato, ma dal
sangue risparmiato": scrive il teologo Don Pierangelo
Sequeri, commentando l'episodio che introduce la Passione,
il gesto di Gesù, che si autoconsegna alle guardie,
che vengono a catturarlo nell'Orto.
Perché
Gesù si consegna? Non per il gusto di andare a morire
o perché sia scritto, chissà dove, che è
bene che il giusto soffra. Si consegna al posto dei suoi
"per evitare a un tempo il sacrificio dei suoi amici
più cari e un conflitto cruento con prevedibile danno
delle guardie e dei servi del Sinedrio".
Si consegna per risparmiare sangue. Pronto a dare il proprio
sangue, purché quello degli altri sia risparmiato.
E così insegna che "non si onora Dio versando
il sangue dell'uomo. Non si glorifica Dio mortificando la
sua creatura. Non si salva il mondo perseguitando l'innocente"
(P. Sequeri).
Il Pastore è bello, perché, pur di difenderci
ha dato la sua vita: è questa la luce della Croce.
"Guardate a lui e sarete raggianti": a tal punto
ci ha difesi!
Saremo,
a nostra volta, luminosi, abitati dalla luce, se racconteremo
con la nostra vita il Signore che avremo contemplato, un
Signore che non canonizza la sofferenza, ma è pronto
ad assumerla, a portarla nella sua carne, purché
gli altri siano salvi.
E se i cristiani ritornassero a raccontare questo con la
loro vita?
Posso sbagliarmi, ma spesso, di fronte alla ferita, alla
sofferenza, al peso delle donne e degli uomini di oggi,
perdiamo tempo a "giustificare" Dio, ricadendo
nella trappola dei discorsi più o meno religiosi
che pretendono di solcare il mare insolcabile del mistero,
attardandoci "intorno a considerazioni che riguardano
esclusivamente le ragioni di Dio, mentre il povero"
-dice P. Sequeri- "aspetta di essere soccorso in nome
di Dio. Perché questa è l'opera che restituisce
a Dio il suo onore: la liberazione dal male, l'alleggerimento
della sofferenza portata e condivisa. Guarire i malati e
riconciliare i peccatori. Liberare dal male e vincere il
peccato del mondo. A costo di prenderli su di sé
per toglierli agli altri. Questo è il Figlio. Questo
è lo stile di Dio".
don
Angelo
|