UNO
SGUARDO DA UN'AMACA
Nella
nostra chiesa parrocchiale sta diventando un rito sempre
più frequente. Piccolo, emozionante rito. Rito senza
rituali. Dentro il rito più grande, più solenne
e -Dio non voglia- più distante.
Se non fosse per il timore che la parola evochi qualcosa
di ufficiale, lo chiamerei "il rito della presentazione
dei neonati".
È solo un rito spontaneo del cuore che in questi
mesi si è sorprendentemente ripetuto ed è
andato sempre più allargandosi e moltiplicandosi.
Lo hanno inventato queste giovani mamme, mie amiche.
Le vedi arrivare. E già è stupore vederle
arrivare fin qui, nella chiesa, pochi giorni dopo aver partorito,
quando, secondo i tuoi calcoli, dovrebbero ancora essere
in clinica o uscite da poco.
Le vedi arrivare con queste tenere amache soppese al collo.
Dentro, nascosto nel tepore, un frugolo di bimbo.
Te lo vengono a portare, dopo la messa, in sacrestia, come
per una processione del cuore. E non sai che cosa più
ti incanta, se la luce negli occhi delle tue amiche o gli
occhi socchiusi dei bimbi.
"Sono venuta a messa oggi" -dice la voce di Lucia
sul nastro della segreteria telefonica- "desideravo
che il bambino, dopo averti ascoltato per tante domeniche
nella pancia, ti potesse ascoltare da fuori, dal vivo. Ma
tu non c'eri. Ti ascolterà la prossima domenica".
È arrivata Lucia. È arrivata Afrodite, poi
Stefania, Chicca, Cristina, Caterina, Elena... e quante
altre mamme per la "presentazione dei neonati bambini".
Una
presentazione che non finisce solo nello stupore. È
come se ritrovassimo davanti al bambino misure più
vere, misure forse smarrite o sul punto di essere smarrite.
Che cosa è grande e che cosa è piccolo?: ti
chiedi. Ti ripassano nella mente volti di "grandi",
volti senz'anima, monumenti del nulla, paesi senza tenerezza.
La "presentazione dei neonati" rimette in discussione
schemi mentali abusati, costumi di vita che privilegiano
grandezze puramente esteriori, di facciata.
Questi teneri germogli sembrano richiamare sottovoce le
parole di Gesù: "Quale vantaggio avrà
l'uomo, se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà
la propria anima? O che cosa l'uomo potrà dare in
cambio della propria anima?" (Mt 16,26).
Parole del Vangelo, che oserei ritradurre -Dio mi perdoni-
così: Che vale guadagnare il mondo intero se poi
perdi la relazione?
In
questi mesi ho ritrovato le parole di Gesù nelle
confessioni di alcuni papà che ti dicevano, illuminandosi,
la gratitudine per questo bambino che li aveva salvati dal
rischio di una sorta di disattenzione alla vita.
Il lavoro, la carriera, il successo possono a tal punto
risucchiarti da farti, non dico cancellare, ma impallidire
la relazione.
Confessa un amico: "Questa bambina con palpabile immediatezza
ti fa capire se ci sei con la testa oppure no. Mi ha fatto
pensare a quante volte forse mia moglie può aver
sofferto per le sere in cui, tornando a casa dal lavoro,
era come se non ci fossi".
Che vale guadagnare il mondo intero, se poi perdi la relazione?
Il volto di un neonato ti richiama l'essenza della vita,
la sua profondità invendibile, la profondità
invendibile della relazione: "se uno desse tutte le
ricchezze della sua casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe
che dispregio": è scritto nel Cantico dei Cantici
(8, 7).
Confesso
che queste mie riflessioni nascono dal "piccolo"
del volto dei neonati, ma nascono sorprendentemente anche
dal "piccolo" del libro di un prete psicanalista
francese, Maurice Bellet.
Il suo piccolo libro, da poco in Italia, a cura dell'editrice
"Servitium", ridice ad ogni pagina la bellezza
e insieme la insostituibilità della relazione, di
questo "essere umani verso gli umani".
Se avviene la relazione, se la custodisci, se ne fai l'"incipit"
di tutto, allora vivi e fai vivere. Se non avviene, se non
la custodisci, se la lasci inaridire, sei una cattedrale
nel deserto.
"Che
cosa resta?" -si chiede Maurice Bellet- "Cosa
resta quando non resta niente? Questo: di essere umani verso
gli umani, che fra noi dimori il fra noi che ci rende uomini.
Perché se questo venisse a mancare, noi cadremmo
nell'abisso, non tanto del bestiale, quanto dell'inumano
o del disumano, il mostruoso caos di terrore e di violenza
dove tutto si disfa.
Questo reciproco e primitivo riconoscimento, è in
un certo senso il banale e l'ordinario della vita.
È quel che ci si scambia nel lavoro condiviso, nei
gesti semplici della tenerezza, nelle conversazioni dal
contenuto forse irrisorio, ma in cui comunque si conversa,
faccia a faccia, intenti ad ascoltare.
È quel che sussiste e riemerge nelle situazioni estreme:
quando qualcuno sta per morire (di Aids, di un cancro, di
vecchiaia... ), quando qualcuno, per l'età o per
un incidente, è ridotto all'ebetismo, o si ritrova
attanagliato dall'angoscia, o quando una madre guarda per
la prima volta il bimbo che è appena uscito da lei"
("INCIPIT O DELL'INIZIO", pag. 13-14).
Il
piccolo viso dei neonati, il piccolo libro del prete psicanalista
francese ci richiamano questo "riconoscerci l'un l'altro"
che è di più, molto di più, del conoscere
-dell'altro- il nome, la via dove abita, la professione.
È questo "esserci" nella relazione "secondo
tutte le forme della relazione: uomo e donna, padre e madre,
figlio e figlia, e fratello e sorella, la fratellanza, l'amicizia,
vita o lavoro in comune, ragione o fede condivisa..."
(pag. 38).
Si può purtroppo stare in casa senza esserci, si
può stare in un amore senza esserci, si può
percorrere una strada senza esserci, come se nulla accadesse.
O puoi stare in una casa, in un amore, puoi percorrere una
strada, entrando in relazione con ciò che odori,
vedi, e ascolti.
Mi
ritornano al cuore le parole luminosissime di un'amica in
una lettera giunta giorni fa, poco prima di Pasqua:
"Stamattina a passo veloce stavo andando dal commercialista.
Aria dolce di primavera. Finalmente giorni di vera primavera.
Ho visto alcuni operai che lavoravano sulla strada. In tre
tiravano una corda, certo stavano lavorando; ma, dicendo:
oh, oh, oh e facendo lo sforzo in comune, sorridevano; avevano
la faccia di chi, invece di lavorare, stava giocando a "tiro
alla fune".
Nel tepore della mattinata primaverile i loro visi, le loro
tute blu non avevano tempo, spazio.
Era una bellissima fotografia. Avrei voluto fermare questa
semplicissima e non banale immagine della vita di tutti
i giorni. Come se il sorriso, il gioco, il tepore di un
primo sole primaverile potessero avere il sopravvento sulla
banalità, sulla noia, sulla fatica della vita quotidiana".
Noi
spesso facciamo questioni di cose o di regole. Ma forse
non abbiamo capito che "non è questione di cose
o di regole; che conta è la profondità e la
verità del legame".
Piccoli visi, piccoli libri insegnano una grande verità,
quella che i cristiani dovrebbero ricordare ogni volta che
dicono: Padre, Figlio e Spirito Santo. O forse hanno impallidito
il mistero della relazione a una questione di numeri: uno
e trino?
don
Angelo
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