FEDELI
ALLA MEMORIA
"E
se uno dei tuoi figli ti chiederà: che cosa stiamo
facendo? tu gli dirai...".
Posso sbagliarmi, ma oggi forse non sono più solamente
i figli o i piccoli a chiederci che cosa stiamo facendo.
Si è dilatata a dismisura la schiera di coloro che
faticano a capire che cosa noi cristiani stiamo facendo,
che cosa significhi questo nostro celebrare la Pasqua del
Signore.
Mi perdo a volte a contemplare il volto dei nostri ragazzi,
i loro occhi, l'interrogazione che come brivido li percorre:
volti ed occhi, i loro, che ci richiamano alla verità
delle cose.
Quale tristezza -penso- se l'interrogazione dei figli incrocerà
i nostri occhi vuoti: unica risposta un silenzio imbarazzato.
IL
FASCINO DI UNA NOTTE
Passa
il tempo, ma non accenna a diminuire il fascino di ciò
che ancora oggi avviene, nelle case degli ebrei illuminate
nella notte di Pasqua, quando il più piccolo dei
figli chiede spiegazione di quella strana cena, della carne
dell'agnello, delle erbe amare, del pane non lievitato sulla
mensa.
"Se i vostri figli vi chiederanno... voi direte loro...
".
E il padre risponde, ricordando le parole dell'Esodo: come
se la memoria illuminasse nella notte dei secoli l'evento
che segnò indelebilmente la storia di un popolo,
quasi a dire la certezza che "oggi" come allora
Dio, con mano potente, fa uscire ancora una volta il suo
popolo dalle nuove schiavitù.
È il capo famiglia che comincia a raccontare:
I nostri padri erano schiavi in Egitto, ma il Signore, nostro
Dio, si ricordò delle promesse fatte ad Abramo, ad
Isacco e alla sua discendenza.
Egli suscitò Mosè suo profeta e lo inviò
a liberare il popolo dalla schiavitù.
Ma il faraone non volle credere alle parole del profeta.
Allora Dio disse loro:
"Ogni famiglia prenda un agnello, sparga il suo sangue
sulla porta della casa perché questa notte io passerò
per il paese d'Egitto e colpirò ogni primogenito.
Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi
siete dentro; io vedrò il sangue e passerò
oltre.
In quella notte mangerete l'agnello. Lo mangerete con pane
non lievitato perché vi ricorderete dell'amarezza
della schiavitù d'Egitto.
Lo mangerete in fretta, con il bastone in mano.
È la "pasqua" del Signore, cioè
il passaggio del Signore che viene a liberarvi.
Ogni anno celebrerete questa festa con un rito perenne,
perché in questo giorno Dio vi ha fatto uscire dall'Egitto
con mano forte e potente"
(cfr Es. 12).
VOI
DIRETE...
Orbene,
comparando la Pasqua dei cristiani alla Pasqua degli Ebrei,
mi sorprende e insieme mi inquieta un pensiero: sapremmo
noi rispondere a un figlio che ci chiedesse conto del senso
custodito nelle nostre celebrazioni pasquali?
O gli occhi rimarranno vuoti e le parola, fatte ormai logore,
inviteranno semplicemente all'osservanza passiva di un vuoto
precetto?
O non potrebbero al contrario riaccendersi di emozione i
nostri cuori nella notte di Pasqua, quando la penombra delle
nostre chiese riesplode nella luce; e nel pane e nel vino,
sulla tavola più grande, i nostri occhi fissano la
memoria del gesto che ha illuminato di sé la notte
del mondo: il Cristo morto e risorto a nostra salvezza?
Un gesto che misteriosamente rivive fino ad essere "oggi"
la "nostra" salvezza.
MANGIARE
IN PIEDI
La
Pasqua degli Ebrei per un ulteriore motivo non cessa di
affascinarmi: non la si può celebrare se non in piedi,
con il bastone in mano, le vesti cinte come di chi sta partendo,
il pane non lievitato perché non c'è tempo
di attendere. Quasi nel rito fosse iscritta una fretta.
Così anche per la Pasqua dei cristiani, una fretta:
la memoria non finisce nelle chiese illuminate di notte,
nell'acqua benedetta o nel profumo dell'incenso.
"Fate questo in memoria di me": occorre uscire
e fare quello che ha fatto il Signore e così continuarne
-pur con tutta la nostra confessata fragilità- la
memoria.
Che cosa hai visto nella notte di Pasqua se non il sigillo
di Dio risplendere su quel Figlio che ha dato la vita? Leggine
il segno: riprende la vita colui che la dona. Fa' questo
in sua memoria.
Mangiare la Pasqua in piedi, con una certa fretta, perché
il segno va portato fuori, e questa volta non più
con preghiere o celebrazioni, ma con il dono della vita,
solidali con le angosce e le speranze di questa nostra generazione.
Questo fa una chiesa, una comunità, un cristiano,
o non è. O fedeli alla memoria o non siamo né
chiesa né cristiani.
Ce lo ricordava, ancora una volta con parola trasparente
e forte, l'Arcivescovo nell'omelia finale al convegno "Farsi
prossimo":
"L'essere cristiani non è caratterizzato dall'andare
a Messa alla domenica ma dal vivere per gli altri, fondato
sul fatto che si va a Messa alla domenica. Non vive dell'Eucaristia
se non chi dona corpo e sangue per i fratelli, come Gesù.
La chiesa non ha altro modo di essere nella società:
la sua ambizione è di servire, a partire dagli ultimi"
(Card. Martini, "Farsi prossimo nella città",
pag. 13)
don
Angelo
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